La curiosa contemporaneità dei Black Country, New Road

Quella dei Black Country, New Road è una storia da raccontare, anche perché rappresenta un concentrato di episodi assai poco probabili, se non impensabili, fino a pochissimi anni fa. Si tratta di un collettivo di giovani e talentuosi musicisti inglesi (tra le quali Tyler Hide, figlia di Karl degli Underworld, la quale probabilmente non era ancora nata all’epoca di Born Slippy), che finisce la sua prima vita a inizio 2018 quando espelle il cantante, accusato di varie molestie sessuali, e cambia nome assumendo quello attuale.

I Nervous Conditions, ovvero la prima e breve vita del gruppo.

A subentrare come cantante e autore dei testi è il chitarrista Isaac Wood; il gruppo, in pieno clima pandemico, registra e quindi pubblica il primo album For The First Time a inizio 2021 e il secondo, Ants From Up There, ad un anno esatto di distanza; i due album, i concerti e le esibizioni dal vivo pubblicati su YouTube mostrano un Wood assai ispirato, carismatico ed inquieto, verosimile erede di personaggi come Ian Curtis (che non cito a caso, anche se la critica tende ad accostarlo ad altri grandi nomi del passato).

Epico.

Ma all’autodistruzione di certi grandi miti del rock Wood preferisce altro, per cui a inizio 2022 egli prende la felice decisione di ritirarsi dalle scene per curare la propria salute mentale.

Gli altri componenti, trovatisi per la seconda volta senza cantante e senza repertorio, dopo uno sbandamento iniziale e voci di scioglimento decidono di riordinare le idee e prima di Natale iniziano la loro terza vita con un bellissimo concerto alla Bush Hall di Londra che, oltre ad essere stato immortalato da un video su YouTube e un album, è diventato l’architrave di tutti i loro concerti del 2023, tra cui quello a cui ho partecipato a Villa Manin a Passariano (UD) lo scorso 16 luglio.

E fu così che i Joy Division diventarono New Order.

Vederli suonare sopra ad un palco come quello dove io facevo suonare i gruppi di inDipendenza Sonora ad un prezzo simbolico di 5 euro è stato un po’ straniante. Questo perché a mio parere, e non solo mio, si è trattato di un evento irripetibile essendo questi ragazzi destinati a calcare ben presto palcoscenici decisamente più importanti (sono comunque già stati a Glastonbury).

Auguro a tutti loro di non perdere mai quella bellissima attitudine da gruppetto del liceo che li caratterizza, e ad Isaac di liberarsi dei suoi demoni interiori…

…E chissà, prima o poi, di salire di nuovo su un palco con i suoi vecchi amici.

Giovanni Betto, dal teatro al cinema

fonte: Circolo Cinematografico Enrico Pizzuti

Tra gli attori non protagonisti di Finché c’è prosecco c’è speranza figura anche l’attore coneglianese Giovanni Betto, che abbiamo contattato per farci raccontare questa sua piccola prima esperienza cinematografica.

Come sei finito a fare il film?
Come un perfetto sconosciuto: mi sono iscritto al casting. Poi è successo un piccolo disguido: il giorno prima dei provini mi ha chiamato un’amica dicendo che stavano cercando qualcuno disposto a “dare le battute” ai partecipanti al casting (i quali in sostanza fanno il provino rispondendo a un attore); ho dato la mia disponibilità specificando però che avrei sperato di partecipare anch’io… Dopo due ore la produzione del film mi ha chiamato dicendo che c’era stato un errore e che avrei fatto il provino.

E quindi?
Ho fatto il provino col regista, il qualche mi ha fatto recitare due-tre volte qualche battuta che mi avevano mandato il giorno prima, e poi gli ho raccontato chi sono e cosa faccio nella vita: due giorni dopo mi ha chiamato il produttore dicendomi che il regista mi voleva per la parte. Evavamo in cinque a contendercela; era la prima volta che partecipavo ad un casting, peraltro in un luogo che non mi aspettavo: il municipio di Conegliano. Per il teatro non ne avevo mai fatti.

Che differenza hai riscontrato rispetto alla recitazione a teatro?
Non credo di poter rispondere a questa domanda visto che il cinema l’ho solo sfiorato, avendo una parte minore: non avevo ottanta scene su centodieci come il protagonista Giuseppe Battiston, e un impegno quasi quotidiano sul set. In cinque settimane di riprese sono stato presente cinque giorni, con scene da sei-sette battute: potrei dirti che insomma è stata un’esperienza rilassante, quasi di divertimento; non ho conosciuto la fatica del set.
Diciamo che dopo questa mia piccola esperienza posso dire che a teatro si fa più fatica: è tutto in diretta e non si può sbagliare, c’è una tensione emotiva diversa. Ma è stato interessante vedere da dentro questa macchina enorme che si muove, con molta tecnica e precisione… e con tempi lunghissimi: si viaggiava a tre-quattro scene a giorno.

Eppure non sembravano scene particolarmente complesse.
Non è esatto. Mi sono reso conto che quello che uno vede sullo schermo è molto poco: due minuti di film corrispondono a una scena ripetuta una decina di volte, tagliata e montata.

Qual è la tua opinione sul film e sul suo tema?
Secondo me è un film garbato, e dal mio punto di vista è uno dei suoi punti di forza. Delle persone hanno storto il naso perché ritengono il film un grosso spot per i produttori di vino, o perché non ha calcato molto sul problema dei pesticidi, ma io non credo all’arte che approccia certe tematiche in modo urlato, con una certa violenza, seppur verbale: non funziona. Secondo questo approccio me funziona meglio: quello che voleva dire il film viene detto con stile e con frasi precise, per esempio “Non si chiede alla terra più di quello che ci può dare”. Il messaggio insomma è chiaro se lo si vuol capire. La sua è una denuncia tranquilla: non mi sarebbe piaciuto un film che strepita.

Sei soddisfatto della tua prova di attore?
Mannaggia! Mi hanno tagliato una bella scena, ma il film una volta montato durava due ore e cinque minuti, per cui hanno dovuto tagliare mezz’ora. Nonostante questo sono rimasto contento… e credo anche di essermela cavata bene.

Che riscontri hai avuto dal pubblico?
Certo, io sono di parte, ma ho letto commenti in rete e messaggi sul mio telefono numerosi e mediamente entusiasti. Il primo giorno di programmazione ho avuto notizie da Treviso, Pordenone e Conegliano di gente rimasta fuori dai cinema, e il film è stato distribuito in più sale del previsto. Ho letto una bella recensione ne “Il Foglio”, e anche Marzullo ne ha parlato bene; certo non entrerà nella storia, ma è un buon film che mostra la bellezza e allo stesso tempo la fragilità del nostro territorio.

L’Azione, domenica 26 novembre 2017

La mia su “Blade Runner 2049”

*** Avvertenza: niente spoiler, ma per questo mi tocca essere un più vago del previsto. ***
Blade Runner lo vidi per la prima volta al liceo in lingua originale con la prof di inglese e fu subito amore a prima vista, per questo rimasi un po’ perplesso quando seppi che sarebbe stato prodotto un seguito, peraltro a così ampia distanza (trentacinque anni).
A mio dire, la migliore fantascienza è quella che, col pretesto di mostrarti il futuro, ti interroga sul presente. Quel che ci mostra Blade Runner 2049 è principalmente l’amore, e la solitudine, ai tempi dell’intelligenza artificiale. E, anche per questo, solleva un grande interrogativo: cos’è umano? E cosa non lo è?
Si tratta di temi già sviscerati dal film cult del 1982; la nuova pellicola si spinge addirittura oltre, fino a portarli alle estreme conseguenze. Ma per il resto parliamo di due film assai diversi.
Denis Villeneuve e soci intelligentemente hanno scelto di “prendere le distanze” dal primo film, evitando così un aperto confronto dal quale ne sarebbero usciti inevitabilmente sconfitti. Ci propongono quindi una storia molto diversa da quella dell’illustre predecessore (vero, J. J. Abrams?), con richiami alla vecchia pellicola che sono funzionali alla narrazione, quindi niente mere citazioni atte solo a far arrapare i fan (vero, J. J. Abrams?).
In sostanza, BR2049 riesce bene dove Star Wars: il risveglio della Forza ha dato invece risultati altalenanti. Impossibile non pensare all’episodio VII della saga di Guerre Stellari soprattutto per due motivi: in primo luogo per la presenza di Harrison Ford, che torna a rivestire i panni di un personaggio che lo rese celebre negli anni ’80; in secondo luogo, per una questione etica che sarà sempre più rilevante nell’industria cinematografica del futuro: è giusto ringiovanire, o addirittura resuscitare, un attore “incollandone” i lineamenti sul corpo di un altro grazie alla CGI? Un dilemma che, a pensarci bene, si sposa benissimo con i contenuti di questa pellicola.
Ottima anche la fotografia, spesso assai lontana dalla cupa claustrofobia del primo film, il quale si scontrava per forza anche con la limitatezza degli effetti speciali dell’epoca. Da segnalare poi il ritorno di un’ambigua figura cristologica (Il maestoso Rutger Hauer che andava incontro alla morte crocifiggendosi da solo lascia spazio ad un Jared Leto nei panni di un imprenditore-divinità).
Bene anche l’onnipresente Hans Zimmer che commenta musicalmente il tutto come si deve: certo, se vi aspettate un tema immortale tipo quello di Vangelis per i titoli di coda del vecchio film, rimarrete delusi (ma, ahinoi, l’epoca delle grandi colonne sonore per il momento è sospesa, sappiatelo). Idem se sperate in qualche dialogo memorabile alla “Ho visto cose che voi umani non potete neanche immaginare”.
In conclusione: dare un degno seguito a un filmone come Blade Runner era un’operazione molto rischiosa. Ma a mio dire difficilmente si poteva fare di meglio. Promosso, decisamente.

Grab that cash with both hands and make a stash

Fra tre giorni esce The Endless River, il nuovo disco dei Pink Floyd. Per uno come me, che può dire di essersi pappati tutti i loro dischi un numero imprecisato di volte dal primo all’ultimo, più i live e cose rare tipo i bootleg del Live a Pompei o della colonna sonora di Zabriskie Point, e che inoltre è riuscito a far suonare discretamente agli allievi adolescenti del suo corso improvvisato di musica una parte di Shine on You Crazy Diamond, dovrebbe essere una notiziona, no?

No, non lo è. In fondo si tratta di una raccolta di brani strumentali (o più probabilmente incompiuti), più un singolo non certo indimenticabile, risalenti alle sessioni di registrazioni del loro ormai penultimo album, The Division Bell, del 1994.

Ora, The Division Bell avrà pure una copertina figona ma, obiettivamente, se lo confrontiamo con altri disconi usciti lo stesso anno (anno particolarmente proficuo per la musica, tra l’altro), non è che spicchi particolarmente per qualità e, soprattutto, freschezza.

Dunque, se all’epoca il trio Gilmour-Wright-Mason non ritenne che valesse la pena pubblicare (o completare) quel materiale, perché mai dovrebbe valerne la pena vent’anni dopo, se non per motivazioni puramente economiche?

Ma veniamo a noi. Da tempo immemorabile i tre dischi più famosi dei Pink Floyd, pur essendo assai datati, sono perennemente nella Top 100 degli album più venduti ogni settimana in Italia: un mistero che nemmeno Adam Kadmon ha provato a spiegare. L’ultimo bollito disco degli U2 finora da noi ha venduto 25.000 copie contro le 28.000 degli Stati Uniti, che ha un mercato discografico molto più grande.

Tutto questo mostra che a noi italiani, anche in ambito musicale, piacciono un sacco le cose vecchie, soprattutto se sembrano nuoveThe Endless River, dietro ad una serafica copertina, è una raccolta di scarti di un disco di vent’anni fa che già allora suonava tutt’altro che nuovo.
I presupposti ci sono tutti: da noi venderà un casino.

Il 2012 in musica. Quinta parte

Quinta e (forse) ultima parte delle mie considerazioni musicali sul 2012. Ne avrei altre in saccoccia, se ho voglia e tempo le pubblicherò. Intanto pappatevi queste.

Penguin Prison – Penguin Prison (2011). Chris Glover è un ragazzo nato nel decennio sbagliato che si sta facendo strada remixando su richiesta pezzi di celebri artisti internazionali. Nel suo disco solista d’esordio esterna la sua passione per la dance anni ’80 pagando pegno a Michael Jackson, Nik Kershaw, George Michael e tanti altri. Disco gustoso dall’inizio alla fine, forse un po’ debole nei testi.


AA.VV. – Con due deca: la prima compilation di cover degli 883. Pubblicato su Rockit per il download gratuito, è diventato un piccolo caso discografico, visto quanto è stato commentato. Una serie di gruppi e cantautori dell’ultima generazione, buona parte dei quali sconosciuti ai più, si sono cimentati nel reinterpretare i successi di quelli che verosimilmente sono stati due loro “miti d’infanzia”: Max Pezzali e Mauro Repetto, in particolare il primo. I risultati sono molto altalentanti, e (per la verità pochi) picchi di genialità si alternano, o a volte si accavallano, a momenti al limite del trash. Tra i primi va innanzitutto messa l’intuizione degli Egokid di interpretare La regina del Celebrità passando dalla seconda alla prima persona singolare, e trasformando così la cubista originale in un travestito, o quella di cantare Nella notte come Samarcanda di Roberto Vecchioni, o ancora di trasformare La donna, il sogno e il grande incubo in un pezzo degli A Place to Bury Strangers. Tra i secondi le pianoline e le voci atonali tanto care a certo scadente indie rock italiano contemporaneo sulle quali non vado a ripetermi. Concludendo, sarà stato anche un divertissement, ma ve la immaginate gente come Faust’O, i Diaframma, Vasco Rossi o Alberto Camerini (per esempio) incidere un tributo a Gianni Morandi nel 1982?

Il Teatro degli Orrori – Il mondo nuovo. Il solito Pasolini, la solita Africa, i soliti immigrati, il solito poeta balcanico, i soliti pistolotti sull’Italia, insomma, il solito Pierpaolo Capovilla che col suo gruppo e i suoi soliti chitarroni sarà anche finalmente uscito dal sottobosco della musica indie (debutto al decimo posto in classifica) ma ormai inizia a stufare. Quanto di buono si era sentito nei primi due dischi, sia a livello di musica che a livello di testi, diventa ora un lungo ed indigeribile predicozzo noise rock. Il quale, più che altro per inerzia, è finito per comparire in molte classifiche dei migliori dischi italiani del 2012 (vedi Afterhours, Padania). Tristezza.


Beach House – Bloom. I Beach House sono due, proprio come andava di moda in quel decennio, gli anni ’80, che fu l’epoca d’oro di gruppi come Cocteau Twins e My Bloody Valentine dei quali i nostri hanno imparato bene la lezione, aggiornando le loro sonorità al nuovo secolo. A partire dalla splendida Myth, singolo senza video che apre il disco, Bloom è un bellissimo viaggio dream pop in compagnia della voce androgina e i sintetizzatori di Victoria Legrand e la chitarra di Alex Scally. A dimostrazione dell’abisso che ci divide musicalmente con gli Stati Uniti, anch’essi hanno raggiunto per la prima volta la top ten americana, non certo con musica o trovate piacione ma con una coraggiosa autopromozione su internet nelle settimane precedenti all’uscita dell’album.

Niccolò Carnesi – Gli eroi non escono il sabato. Cantautore siciliano all’album di debutto: anche lui compare nel summenzionato disco tributo agli 883. Sarebbe anche carino come disco, quel che mi lascia perplesso è il fatto che sempre più spesso quando ascolto artisti emergenti italiani mi vengono in mente i dieci accessori di un vero finto intelletuale. Non è una cosa buona.


Tying Tiffany – Dark Days, White Nights. Misteriosa musicista padovana che (a quanto pare) da tempo ha rinnegato la propria città natale. Dopo aver esordito con un disco di avanguardia acerbo e al limite dell’inascoltabile, ha provato ha dare più peso al proprio progetto, cambiando in parte la propria direzione musicale. Nel quarto album propone un electroclash dal sapore internazionale ma piuttosto evanescente, con rari momenti buoni che si perdono in pezzi un po’ troppo simili tra loro, finendo per essere noiosi.

Fiona Apple – The Idler Wheel Is Wiser Than the Driver of the Screw and Whipping Cords Will Serve You More Than Ropes Will Ever Do. Ok, a Fiona piacciono i titoli lunghi, e questo lo sapevamo già. E a differenza di qualche sua coetanea con quindici anni di carriera alle spalle, di cose da dire ne ha ancora, e lo dimostra con questo album schietto, introspettivo, variegato. Fiona non le manda certo a dire, e lo fa ancora benissimo.


Novalisi – Per Versi Soli. Difficile essere obbiettivi quando si parla di un gruppo uscito a dieci chilometri da casa mia, anche perché i Novalisi sono senz’altro una delle poche formazioni significative uscite dalla mia zona. Ai tre di Meduna di Livenza nel loro album di debutto va dato atto di aver creato un sound personale e non facilmente etichettabile, per quanto piuttosto “influenzato” dall’ascolto di tanto rock alternativo degli ultimi anni. A indebolire la qualità finale dell’incisione è una certa tendenza dei testi ad essere “forzatamente” strani e l’interpretazione del cantante, al quale manca a volte un pizzico di personalità. Le potenzialità, comunque, sono buone. Bene! Ascoltateli su Spotify. Come dite? In Italia ancora non si può? Ma dai…


Godspeed You! Black Emperor – ‘Allelujah! Don’t Bend! Ascend!. I canadesi hanno i Godspeed You! Black Emperor, mentre in Italia abbiamo i Modena City Ramblers. Dove abbiamo sbagliato? I primi rappresentano un collettivo di musicisti militante di sinistra: le cose in comune con il gruppo italiano per loro fortuna terminano qui. Sono solo al loro quinto disco in diciotto anni: forse incidono solo quando hanno veramente qualcosa da dire o forse no, fattosta è che anche questa volta hanno colpito nel segno, pur non essendoci un granché in quanto ad evoluzione stilistica. Quattro tracce (di cui due oltre i venti minuti) di post rock, in parte già da anni presente nella scaletta dei live, sopraffino al punto da dare pesante filo da torcere anche ai sommi Sigùr Ros. Tanta ma tanta roba.

Tame Impala – Lonerism. Col secondo album, i neozelandesi Tame Impala si impongono all’attenzione di un pubblico maggiore proponendo un rock psichedelico sciallo e chiassoso, con vari richiami agli anni ’60 tra cui anche ad un gruppo non molto psichedelico come i Beatles. Difficile stabilire se sia migliore questo o il disco d’esordio, Innerspeaker. E’ stata una piccola soddisfazione vedere questo album fare una comparsata (mi pare al 95° posto) della Top 100 italiana: c’è ancora speranza!

2012 in musica. Quarta parte


Of Monsters and Men – My Head is An Animal (2011). Le canzoni che diventano famose grazie a spot pubblicitari tendono a starmi pregiudizialmente antipatiche, non fosse per il fatto che sentirle ripetute a martello da radio e TV non aiuta ad apprezzarle. Ma allo stesso tempo non posso non provare interesse per un gruppo che 1. si chiama “Dei mostri e degli uomini”, roba che neanche Giovanni Lindo Ferretti 2. è islandese. Gli Of Monsters and Men sono un gruppo che vive di rendita, la rendita portata dal successo in particolare di un gruppo come gli come Arcade Fire. Le somiglianze con l’ensemble canadese non mancano: sonorità, attitudine, uso della voce, formazione numerosa, e alla larga pure vicinanza geografica. My head is an Animal, rispetto ai dischi della band di Montreal, è di certo più folk e melodico e meno barocco e variegato, e più modesto. Ma alla sufficienza piena comunque arriva.

Uochi Toki – Idioti. Se volete una recensione scontata, non ce n’è bisogno: l’hanno già fatta loro in traccia 10. Personalmente aggiungo che questo album risulta decisamente più difficile all’ascolto rispetto ai suoi due già di certo non facili predecessori. Ma non è necessariamente un complimento. Basi più piatte del solito, testi più confusionari che complessi, e che faticano a trovare una direzione: per una volta, c’è due senza tre.


Lana Del Rey – Born to Die / Lana Del Rey EP / Paradise. Uno dei più singolari casi nella storia della musica pop recente: è bastato un ottimo singolo, Video Games, pubblicato in sordina a fine giugno 2011 con tanto di notevole video rigorosamente autoprodotto, a far gridare a molti, troppo presto, al miracolo. E così l’uscita a gennaio di Born to Die ha probabilmente deluso le attese: perché più che delle malinconiche atmosfere retrò del pezzo suddetto, l’album è permeato di un pop patinato, che risente più di Timbaland(!) e di certo lussuoso hip hop contemporaneo che di Nancy Sinatra. L’atteggiamento ambiguo della cantante ha fatto il resto: siamo di fronte ad una timida ragazza d’altri tempi entrata dentro a qualcosa più grande di lei o, più probabilmente, ad un’attrice consumata che recita una parte (benissimo o malissimo, a seconda dei punti di vista)? Fregandocene del gossip e pensando solo alla musica, Born to Die è un buon disco pop con almeno due/tre ottime tracce (incluse nell’EP eponimo) ma dalle tematiche piuttosto ritrite (In particolare la storia del “live faster, die young” è vecchia, ormai). Paradise è un interessante EP di cover.

Florence + The Machine – MTV Unplugged. Il gruppo di Florence Welch, se azzecca un altro paio di dischi, rappresenterà per questo decennio ciò che (nel bene e nel male) sono stati i Coldplay in quello passato. Scommettiamo? Intanto, dopo il fortunato Ceremonials, i nostri danno i rituali colpi al martello per tenerlo caldo con una nuova uscita, registrata live ed unplugged: operazione sicuramente commerciale e neanche tanto originale, ma dal risultato perlomeno dignitoso. Dal vivo, senza tanti orpelli ed aiutini forniti dalla sala di registrazione, sono soprattutto i pezzi nuovi a perdere in quanto ad impatto; il gruppo se la cava benino lo stesso, ed anche la cantante riesce (quasi) sempre ad essere all’altezza.

Enrico Ruggeri e AA.VV. – Le canzoni ai testimoni. Reincidere alcuni vecchi successi in un momento di stasi creativa non è certo una scelta originale. E nemmeno farsi affiancare nell’operazione da altri. Ciò che contraddistingue il disco è la scelta non scontata di questi artisti: nessun amico di gioventù o artista affermato, piuttosto band ancora sconosciute (Fluon, Serpenti), artisti di nicchia (Diego Mancino, L’Aura), gruppi della scena (più o meno) indipendente italiana (Marta sui Tubi, Linea 77), cantautori dell’ultima generazione (Dente, Bugo). Quasi mai, però, i risultati sono almeno all’altezza degli originali, sia tra chi ha voluto discostarsi molto dalla base di partenza, sia tra chi invece è stato più ortodosso.


Fine Before You Came – Ormai. Ripetersi dopo un discone come “s f o r t u n a” era difficile, ma i FBYC ci sono quasi riusciti. Il quartetto milanese ha nei propri difetti il proprio punto di forza: proprio come il suo predecessore, “Ormai” si avvale di una qualità di registrazione non certo eccelsa, e la voce sgraziata e roca del cantante di certo non aiuta. Ma è proprio il suono grezzo di questo emo/post rock passionale, corrosivo e trascinante che rende questo album degno di essere ascoltato e riascoltato numerose volte. Tanto di cappello anche all’ostinata politica del gruppo di diffondere gratuitamente la propria musica: è uno dei gruppi dei quali ho il cruccio di non aver mai visto un’esibizione dal vivo. C’è mancato poco a Villa Tempesta, ma…

The Maccabees – Given to the Wild. A mio modesto parere, questo è il tipico mediocre gruppo indie rock inglese che, nonostante questo, finisce per avere comunque molti estimatori in Italia. D’altra parte siamo il paese che nel 2012 ha portato al successo i nuovi bollitissimi dischi di gente come Cranberries, Skunk Anansie e Alanis Morissette. Ma non divaghiamo. Given to the Wild, disco non particolarmente brillante né fantasioso, parte benino ma si arena presto in pezzi non particolarmente interessanti. Niente di nuovo sotto il sole.


Soap&Skin – Narrow. Con questo curioso nome d’arte si definisce il progetto musicale di Anja Franziska Plaschg, pianista/cantautrice austriaca nata nel 1990: Narrow è il suo secondo album, o sarebbe meglio dire mini-album. Le influenze per le pianiste contemporanee sono quasi obbligatorie; di suo ci mette una voce atonale dallo spiccato accento teutonico e una spruzzata di elettronica stile Bjork a dipingere un album con pochi sprazzi di luce. Siamo comunque ad una specie di seguito, musicalmente parlando, del disco d’esordio del 2009, dal quale non si discosta di molto. Interessante la cover di Voyage Voyage dei Desireless, uno dei brani più significativi del synthpop francese degli anni ’80.

Ufomammut – Oro: Opus Primum. Gruppo doom metal di Tortona con sette album pubblicati in dodici anni: questo è la prima parte di un disco doppio, pubblicato in due momenti diversi. Chi li conosce? Non certo in tantissimi, eppure sono uno dei gruppi rock italiani più apprezzati all’estero, un po’ come i Lacuna Coil nel 2004 o giù di lì. Siamo di fronte però a tutt’altro genere: Opus Primum presenta cinque lunghe tracce che sono di fatto una ripetizione ossessiva dello stesso tema. Dilatato, oscuro, psichedelico, finisce però per risultare alla lunga un po’ monotono.


Japandroids – Celebration Rock. Titolo azzeccato per un disco omogeneo come si deve, che sarebbe un’ottima colonna sonora per una festa con la gente giusta. Si inizia e si finisce con fuochi d’artificio, si canta urlando: noise rock piacevole, casinista e divertente. Non è necessario aggiungere altro: ascoltatelo con le casse alte.


Mac DeMarco – 2. Rimaniamo in Canada con l’opera seconda, uscita solo sette mesi dopo l’opera prima, di un curioso artista che risponde al nome di Mac Demarco. A vederlo in copertina, con quel cappello e quella camicia di flanella lo si vedrebbe bene al massimo a caccia insieme a Ned Gerblansky di South Park; invece è un interessante polistrumentista, musicalmente accostato ai Real Estate ma che fa tornare in mente Iggy Pop oppure certo glam rock. Un album più cantautoriale che rock, scarno, curioso, non passa certo inosservato. Ne sentiremo ancora parlare.

2012 in musica. Terza parte


Swans – The Seer. Questo, per ora, è il mio disco dell’anno, sin dalla copertina. Un album dalle molte sfaccettature, pur avendo come filo conduttore una ripetitività che lo rende estraniante ed ossessivo. Anche troppo, a volte. Le litanie corali di Lunacy e i lamenti di Mother of The World introducono ai trentadue minuti(!) della title-track, vera e propria discesa agli inferi dai quali si risale con la più convenzionale (si fa per dire) The Seer Returns. Dopo la cacofonia di 93 Ave. B Blues si passa ad un nuovo stravolgimento con i due brani quasi acustici che rispettivamente chiudono il primo disco ed aprono il secondo; si passa alla traccia successiva e stavolta sono le campane a farci ripiombare nell’ossessione in Avatar, ma quando meno te l’aspetti arrivano chitarre elettriche e batteria a spaccare tutto. A fare da epico e allucinato finale, due suite di rispettivamente 19 e 23 minuti. Gran disco, che è meglio ascoltare che spiegare: trent’anni di carriera e non sentirli.


Kimbra – Wows (2011-2012). Kimbra, tanto per intenderci, è la moretta lanciata da Gotye per aver duettato con lui nella strafamosa Somebody That I Used To Know. Trattasi di una ventiduenne esteticamente simile a Regina Spektor(!) e pazza quanto basta, con alle spalle canzoni incise già a 15 anni. Ora esce con il suo primo vero e proprio album. E che album: no, non ha (quasi) niente di rivoluzionario; è solo (si fa per dire) un disco di ottima musica pop decisamente ben arrangiato e suonato, con brani piuttosto variegati che esaltano appieno le notevoli doti canore delle cantante. La quale, in quanto neozelandese, ha subito il fascino e l’influenza di chi l’ha preceduta dall’altra parte del mondo, Kylie Minogue in primis. Esistono due versioni dell’album: quella australiana (2011) e quella americana (2012), con tracklist sensibilmente diverse. Meglio quest’ultima, anche grazie ad una Plain Gold Ring cantata dal vivo decisamente migliore della versione in studio (qui sopra).

Francesca Michielin – Distratto/Riflessi di me. Passiamo da una giovane e talentuosa interprete ad un’altra, ancora più giovane (17 anni) ma nata nel posto sbagliato (Bassano del Grappa, ovvero in Italia). Dopo l’EP uscito come di consueto all’indomani della sua vittoria a X Factor (gennaio), verso fine anno è uscito pure l’LP d’esordio, del quale difficilmente ci si ricorderà ancora tra qualche anno; al massimo dei primi due singoli, entrambi firmati da Roberto Casalino ed Elisa Toffoli. Nonostante la “sovrintendenza” di quest’ultima infatti, il resto del disco presenta poche intuizioni felici annacquate in sonorità e testi banalmente tipici di certo blando pop nostrano, i quali sviliscono l’attitudine spiccatamente rock dell’artista. Per lei quindi valgono quindi molte considerazioni che si potrebbero fare per altri giovani cantanti nostrani. Rimandata, suo malgrado, a settembre.

Malika Ayane – Ricreazione. Il terzo disco di quella che è una delle più raffinate interpreti dell’ultima generazione del pop italiano presenta un ventaglio di autori dei decisamente eterogeneo: Pacifico, Paolo Conte, Sergio Endrigo, Boosta dei Subsonica, Tricarico… Ma l’ascolto, almeno nel mio caso, non è stato all’altezza delle aspettative derivate da questi nomi e dalla buona pubblicità fatta al disco al momento della sua pubblicazione (ma dietro c’è pur sempre Caterina Caselli): se l’inizio del disco è decisamente buono, il resto tende a scivolare via. Un po’ di amaro in bocca quindi, stranamente simile a quanto provato con altri dischi di giovani artisti di casa Sugar: un caso?


Porcelain Raft – Strange Weekend. La fuga di cervelli riguarda anche i musicisti: ecco mr. Mauro Remiddi, romano classe 1972 ma in pianta stabile a New York. Quello di “Strange Weekend” è un dream pop che in fondo non ha molto da invidiare a quello dei più quotati Beach House. Ed è più orecchiabile di questi ultimi. Ed è stato recensito positivamente all’estero. E Repubblica XL, almeno stando all’archivio del sito, non se l’è mai filato. Sono sufficienti questi motivi per conoscerlo? Decisamente.

David Byrne & St. Vincent – Love This Giant. Annie Clark, alias St. Vincent, è una delle cantautrici americane emergenti del momento: tra le sue ispirazioni non possono mancare i Talking Heads. David Byrne dei Talking Heads era il leader e l’anima. Non è automatico che mettendo insieme due artisti, per quanto così affini, potesse venire fuori qualcosa di buono, anche se Byrne ha dei precedenti notevoli riguardo a dischi in “comproprietà” (leggi Brian Eno). All’ascolto infatti Love This Giant dà l’idea di un qualcosa partorito durante una vacanza, anche creativa, in uno stato di rilassatezza, di disimpegno: è un disco stralunato, a volte anche divertente all’ascolto, ma non decolla. Qualcuno lo ha definito “Il Lulu del 2012″: definizione abbastanza azzeccata.


Marco Guazzone e Stag – L’altante dei pensieri. Giovane cantautore romano al debutto con la sua band, dopo essersi messo in luce a Sanremo Giovani 2012 con un brano qualitativamente sopra la media sanremese, Guasto, tanto da essere stato definito vincitore morale. Eppure questo non gli è bastato né per entrare nella Top 100 italiana e nemmeno per avere una pagina su Wikipedia. Testi di buon livello, ma una certa monotonia di fondo pervade troppo spesso l’ascolto: a mancare il disco è soprattutto grinta e mordente. Bene per le influenze british (il britpop alla Coldplay o il pop/rock alla Muse) ma fino ad un certo punto: si tratta pur sempre di sonorità di dieci anni fa. Comunque non lo perderò di vista, anzi, d’udito.

dEUS – Following Sea. Di loro conoscevo solo Pocket Revolution (2005), li ho riscoperti subito prima di vederli suonare a Villafranca. Hanno fatto dei dischi di certo validi (che però non mi hanno chissà che entusiasmato) ma tanto tempo fa; questo ultimo invece mi puzza di gruppo in piena fase calante, quando i fasti sono ormai lontani e quindi si tende a vivacchiare. Benino il singolo che apre l’album.


Goat – World Music. E dopo i cigni e il cervo, la capra: stando al sito rateyourmusic, di gruppi e artisti con questo appellativo ce ne sono almeno nove: questo è svedese e debutta con questo “World Music”, un potente concentrato di rock psichedelico, rumoroso e a tratti mistico, che suona allo stesso tempo retrò e moderno, da ascoltare con un paio di amplificatori come si deve. Il titolo si deve al tentativo, riuscito, di infilare in un genere occidentale e di altri tempi una spruzzatina di musica etnica. Figo, no?