Il panevin. Ma perché?

Sarà, ma io col passare degli anni sono sempre più insofferente nei confronti dei panevin.
Parliamo di un vero e proprio rito, nato in epoca antichissima, che ha travalicato i secoli e le culture (in fondo anche la pseudo-profezia della fine del mondo nel 2012 faceva riferimento ad una specie di “panevin Maya”), fino ad arrivare ai giorni nostri. Com’è potuto accadere questo?
Perché, nonostante i tanti cambiamenti che hanno segnato la nostra storia, l’accensione del grande falò all’inizio dell’inverno ha sempre rappresentato un’autentica espressione spirituale di un mondo legato alla natura e ai suoi cicli. Un mondo che per la natura aveva rispetto, ma non necessariamente perché era migliore del nostro: semplicemente dipendeva ancora molto da essa, e anche volendo non possedeva ancora i mezzi per oltraggiarla.
Oggi, che possiamo andare al supermercato la domenica e comprare frutta tropicale fuori stagione coltivata a migliaia di chilometri di distanza da contadini probabilmente sfruttati, cos’è rimasto di quel mondo?
Niente.
E i risultati si vedono: il 5 gennaio ormai nessuno va a ciamàr panevin, anche perché nessuno ormai sa cosa significa. Piuttosto si va ad una manifestazione che si ripete stancamente, dove si può (o si rischia di) incrociare qualcuno che non si vede da tempo, ci si libera di un po’ di rifiuti in modo inappropriato, si sparano petardi e fuochi d’artificio. E, soprattutto, si mangia e si beve gratis.
Fare i panevin, nel nostro mondo, non significa più rispettare le tradizioni.
È solo accanimento terapeutico.