Serge Latouche a Sernaglia della Battaglia

C’era veramente, ed è proprio il caso di dirlo, il pubblico delle grandi occasioni lo scorso giovedì 8 novembre nella sala convegni comunale di Sernaglia della Battaglia: per il filosofo francese Serge Latouche l’affluenza è stata ben superiore ai duecento posti della capienza della sala, al punto che gli ultimi arrivati hanno dovuto accontentarsi della diretta televisiva all’esterno dell’edificio.
La serata è stata organizzata dall’amministrazione comunale e da La Chiave di Sophia, quadrimestrale di filosofia di Santa Lucia di Piave.
Il relatore, curiosamente, ha iniziato prendendo le distanze dalla definizione di “filosofo della decrescita felice”, che gli viene attribuita solo in Italia, vista l’ambiguità del termine. Il concetto di “felicità” infatti si diffonde in occidente solo nell’epoca dei Lumi: se prima, in una società fortemente cristianizzata, si parlava di “beatitudine”, quest’ultima gradualmente ha ceduto il passo appunto al concetto di “felicità”, concetto figlio di una società laica, borghese e fortemente individualista. In cosa consistesse la felicità l’hanno spiegato gli economisti: nel consumare, nell’aumento del Prodotto Interno Lordo. Se quindi la “beatitudine” ambiva ai beni spirituali, la felicità ora ambisce ai beni materiali, e da qui si è innescata una folle corsa alla crescita fine a se stessa basata sulla creazione di bisogni artificiali.
Ciò che però auspica Latouche non è una decrescita felice, con una conseguente diminuzione del PIL, quanto piuttosto l’uscire da questa logica di consumo che permea le nostre vite, ed è per questo che più che di “decrescita” sarebbe più corretto parlare di “acrescita”.
Il filosofo ha quindi voluto ricordare un figlio della nostra terra, quel Pier Paolo Pasolini che già aveva trattato a suo modo questi temi negli anni ’60 e ’70 e che quindi può essere annoverato tra i precursori della decrescita. Fu lui, per esempio, a far notare come il consumo si basi sull’infelicità e che la pubblicità a questo proposito serva a generare un senso di insoddisfazione in chi la fruisce. Ma questa “società della scarsità”, come l’ha definita, produce “lo spettacolo dell’abbondanza” negli scaffali dei supermercati e questa, a sua volta, produce sprechi e rifiuti.
Ma come si può uscire da tutto questo? Innanzitutto “ponendo un limite ai nostri bisogni”, perché in caso contrario non potremmo mai liberarci dal senso di insoddisfazione generato dal consumismo. E poi con un ritorno alla frugalità di un tempo, che non significa attuare una politica di austerità, quanto piuttosto sviluppare una “capacità di autolimitarsi”, soddisfare i propri bisogni senza consumare all’infinito.
A questa scelta etica che incide sul personale, occorre però una seconda scelta che incida a livello globale: una scelta comunicativa. La nostra è l’unica società della storia che si basa su concetti come competitività, razionalità ed efficienza, quando invece le altre cercavano la saggezza. E i saggi di tutte le civiltà hanno sempre sostenuto che il senso della misura è fondamentale per vivere bene. Occorre quindi un “mutamento antropologico” che riporti l’economia all’interno dei limiti posti dalla società e dalla politica. Latouche ha parlato di “buonsenso di un bambino di cinque anni”: parafrasando il grande attore Groucho Marx, ha concluso sostenendo che basterebbe un bambino di cinque anni per far capire ai politici che “una crescita infinita è incompatibile con un mondo finito”.

L’Azione, domenica 18 novembre 2018

15 settembre 2008: il fallimento che ha cambiato il nostro mondo

Ognuno di noi ricorda bene cosa stava facendo martedì 11 settembre 2001 quando seppe la notizia degli attacchi terroristici a New York.
Nessuno invece ricorda cosa stava facendo lunedì 15 settembre 2008 quando venne a sapere che proprio a New York falliva la Lehman Brothers, società multinazionale di servizi finanziari, dando inizio ad una delle più gravi crisi economiche di sempre.

Eppure quest’ultimo evento ha avuto un impatto sulla nostra storia decisamente maggiore del primo: lo storico americano Adam Tooze ne “Lo schianto”, il suo ultimo saggio pubblicato a fine agosto, collega il crollo della Lehman Brothers a tutti i principali avvenimenti accaduti a livello planetario nell’ultimo decennio, dalla crisi in Ucraina a quella dell’Eurozona, dalle primavere arabe all’emergere di forze politiche populiste in tutto l’occidente.

Nel primo appuntamento di Fucina n.4 della stagione 2018/19 vogliamo chiederci: che impatto ha avuto la crisi finanziaria del 2008 nelle nostre vite? E potrebbe capitarne un’altra?
Ne parleremo con Paolo Piacenza, giornalista e direttore editoriale di Pop Economix, progetto nato a Padova nel 2011 con l’idea di raccontare, attraverso il teatro ed altre forme di divulgazione, proprio la crisi del 2008.

15 SETTEMBRE 2008: IL FALLIMENTO CHE HA CAMBIATO IL NOSTRO MONDO
Giovedì 18 ottobre, ore 20.40
Aula magna dell’ISISS Antonio Scarpa
via I maggio 3, Motta di Livenza (TV)

Il terrorismo e gli obbiettivi del Wahabismo

Foto de La Tenda Tv (video della serata in calce al post)

Fulvio Scaglione, giornalista per varie testate cartacee e digitali, nonché ex direttore di Famiglia Cristiana, è stato il relatore di una serata organizzata al Museo del Cenedese a Vittorio Veneto lo scorso 3 marzo da Mondo in Cammino e l’associazione culturale MAI.
Scaglione ha mostrato, numeri alla mano, come non ci sia alcun indicatore che mostri un miglioramento da quando, a seguito dell’11 settembre 2001, gli Stati Uniti lanciarono la loro crociata contro il terrorismo, seguiti a ruota da tutti i suoi alleati occidentali: il numero dei morti nel mondo per attentati terroristici compiuti da estremisti islamici è in aumento, così come in generale l’instabilità politica. Occorrerebbe a questo punto chiedersi, ha affermato provocatoriamente il giornalista, se ci sia veramente mai stata una guerra al terrorismo.
Egli ha voluto fare una precisazione, assai importante per evitare di liquidare frettolosamente quanto sta accadendo nel mondo come uno “scontro di civilità” o una guerra dell’islam contro gli infedeli: il terrorismo è figlio del wahabismo, una corrente interna all’islam che predica un’interpretazione rigida e conservatrice del Corano, a cui aderiscono le petrolmonarchie al potere nella penisola arabica (in particolare in Arabia Saudita). Il suo obbiettivo principale, da decenni, è quello di monopolizzare l’islam cancellando qualsiasi altra corrente di pensiero al suo interno. Con ottimi risultati: se infatti l’Arabia Saudita è la patria di appena il 3% dei musulmani, essa controlla più o meno direttamente il 90% delle associazioni filantropiche, religiose e culturali di ispirazione islamica nel mondo, finanziando inoltre la costruzione di moschee ovunque, anche in Europa (in particolare in Kosovo e Bosnia). Certe associazioni filantropiche sono però specchietti per le allodole che, con la scusa di ricevere la zakat, ovvero l’elemosina che ogni musulmano praticante deve versare da precetto, riceve ingenti somme di denaro che vengono poi destinate ad Al Qaida, Hamas ed altre organizzazioni del terrore nel mondo: un meccanismo funziona almeno dal 1979, ovvero da quando venivano finanziati sottobanco i mujaheddin che combattevano contro i Sovietici in Afghanistan.
A sostenere questa tesi, ma Scaglione parla di “dato di fatto”, non sono complottisti o teste calde, ma insigni docenti universitari e esperti di geopolitica che lavorano per autorevoli centri studi di settore anche americani, fin dal 2002. E ne è al corrente anche Washington, come dimostrano i documenti della Segreteria di Stato americana datati 2009 resi pubblici da Wikileaks. Eppure questo non ha impedito ad Hillary Clinton, all’epoca Segretario di Stato, di dare l’assenso quattro anni dopo alla più imponente vendita di armi della storia, 63 miliardi di dollari in tutto, proprio a favore dell’Arabia Saudita.
I rapporti commerciali con questo paese sono una gigantesca torta da cui, comunque, mangiano tutte le principali economie del mondo, compresa quella italiana. Nessuno, in cambio, alza la voce per denunciare le perenni violazioni dei diritti umani in atto nel paese: è questo “il patto con il diavolo” che dà il nome al libro che Scaglione, nell’occasione, ha presentato.
Detto questo, la soluzione di Scaglione per uscire da questa spirale di terrore è assolutamente logica: “L’occidente non potrà mai vincere la battaglia contro il terrorismo finché sceglierà di avere come amici gli amici dei terroristi”. Ma quando si fa a patti col diavolo, di logico rimane ben poco.

L’Azione, domenica 10 marzo 2017

INCONTRO – La pace con le armi in Siria. Fulvio Scaglione racconta "Il patto col diavolo" from La Tenda Tv on Vimeo.

USA 2016: e se fosse andata diversamente?

Hillary Clinton

Forza ragazzi. Tra poche ore sapremo che Hillary Clinton ha vinto le presidenziali USA e potremmo tirare un sospiro di sollievo che neanche dopo la crisi dei missili a Cuba nel ’62.
E nel nostro paese inizierà subito una grande gara a salire sul carro della vincitrice, che per l’occasione assumerà le dimensioni del Titanic. I nostri politici, salvo pochi insignificanti distinguo, dichiareranno la propria soddisfazione per l’esito delle urne e Laura Boldrini su Twitter parlerà di “giornata storica per tutte le donne del mondo”. I quotidiani ci delizieranno con scontate frasi ad effetto del tipo “da oggi l’uomo più potente del mondo è una donna” e reportage sugli Stati Uniti, questo grande paese che nonostante le tante contraddizioni ancora una volta stupisce il mondo e quanta strada c’è ancora da fare in Italia; i vari Severgnini, Gramellini, Bignardi, Palombelli eccetera diranno esattamente quel che ci si aspetta dai vari Severgnini, Gramellini, Bignardi, Palombelli eccetera, e via così. Si faranno considerazioni semiserie sul nuovo ruolo da First Gentleman di Bill Clinton e sul lato del letto su cui dormirà, qualcuno toglierà dal congelatore Monica Lewinsky e insomma sarà un gran bel revival degli anni ’90, e a noi italiani i revival piacciono un sacco. Saremo travolti da un’ondata di entusiasmo che non troverà un riscontro tale forse nemmeno tra lo stesso elettorato americano, compreso quello di parte democratica, che dopo la staffetta Bush senior-Bush junior forse avrebbe preferito evitare appunto un altro revival, un altro passaggio di consegne in famiglia.
Il problema è che, in virtù dell’essere guidata da colei che ha salvato il mondo dall’Alcolico Biondo, l’amministrazione Rodham Clinton si sentirà legittimata a fare più o meno qualsiasi cosa.
Cosa? Lo possiamo immaginare non solo dai noti inciuci della ex First Lady col mondo della finanza, con conseguente appoggio (rimangiato di recente per opportunismo) all’ormai defunto TTIP, ma anche da suoi trascorsi di politica estera: lasciando perdere la fumosa questione delle email, la Segreteria di Stato a guida Clinton ha responsabilità precise negli sciagurati interventi militari in Libia e Siria, i cui effetti (in particolare terrorismo e migrazioni di massa) stiamo subendo e subiremo ancora per anni.
C’erano due regimi antidemocratici da rovesciare, si diceva; ma se è per quello ci sarebbe pure una monarchia assoluta in Arabia Saudita, culla e finanziatrice per stessa ammissione della Clinton dell’islam radicale, nonché terra natale di Osama Bin Laden e di gran parte degli attentatori dell’11 settembre. Nonostante questo, l’Arabia Saudita non la tocca nessuno, e c’è da scommettere che nel prossimo futuro le cose non cambieranno, visto che la nuova inquilina della Casa Bianca non si è fatta problemi, negli anni scorsi, ad approvare vendite di armi per miliardi di dollari proprio ai sauditi, col benestare del Premio Nobel per la Pace Barack Obama.
L’Arabia Saudita oltretutto è quel posto dove se non sei musulmano o sei omosessuale rischi la forca, e se sei donna i tuoi diritti basilari vengono quotidianamente calpestati. Eppure Hillary, che dice di sostenere i diritti dei secondi e delle terze, e che anche per questo ha istituito una fondazione col marito, non si fa problemi a ricevere da anni abbondanti donazioni, per essa e per la campagna elettorale, dalle ricche famiglie saudite che rappresentano di fatto la classe dirigente del paese.
Ma tanto, che volete che sia? L’importante è evitare a tutti i costi la terza guerra mondiale con Trump, no? Da domani alla presidentessa basterà farsi fotografare ogni tanto in mezzo a dei latinos, ad un Gay Pride o ad una conferenza sul clima, per mostrare a tutti quanto sia di sinistra; e per il resto, neoliberismo e imperialismo come se piovesse. Come da tanti anni a questa parte, con poche variazioni sul tema.
Ma se la mano che toglie diritti sociali alle fasce più deboli, o bombarda per sbaglio dei civili da qualche parte nel mondo, fosse democratica e per giunta femminile, sarebbe meno grave, giusto?

[N.B.: ho pubblicato questo testo ieri sera su Facebook: previsione sbagliata. Ma guardate la luna, non il dito.]

Ventun’anni fa, il genocidio

Donne hutu in Burundi. Foto mia, agosto 2014.

Anche quest’anno il 5 aprile nel social network molti hanno ricordato l’anniversario del suicidio di Kurt Cobain. Ma è bene ricordare che in quelle stesse ore del 1994 un missile terra-aria distruggeva l’aereo in cui viaggiavano i presidenti del Ruanda e del Burundi, scatenando l’ultimo genocidio del ventesimo secolo, costato la vita ad un numero di persone compreso tra gli ottocentomila e il milione.
Giusto per capire, significa più di 50-60 stragi come quella di Garissa in Kenya, ogni giorno, per cento giorni consecutivi, in un territorio grande meno di una volta e mezzo il Veneto.
Il genocidio del Ruanda fu un crimine contro l’umanità organizzato e messo in atto nell’indifferenza, quando non addirittura nella complicità, dell’Occidente. Basti solo la considerazione che tra i tanti responsabili morali di quanto avvenne figurano due futuri segretari generali dell’ONU.
Dice questo articolo di LIMES che vi suggerisco di leggere:
“I motivi che rendono necessaria una riflessione sul genocidio del 1994 in Ruanda trascendono il maggiore o minore interesse per le vicende del continente ove si è verificato. La lineare meccanica che li ha causati, difatti, pertiene ai comportamenti degli esseri umani ovunque essi risiedano. Ignorarli, pertanto, oppure non averne che una comprensione superficiale, ci priverebbe di quel vitale antidoto che consente a ciascuno di noi di contrastarne la riapparizione.”
Non serve aggiungere altro. Dunque va bene ricordare la strage di Garissa ed anche sottolineare che ha avuto un impatto nell’opinione pubblica notevolmente minore dei morti di Charlie Hebdo, ma fermarsi all’indignazione, o al postare le foto dei cadaveri, serve a poco.

Crisi e cambiamento

Nella serata di mercoledì 27 novembre la pastorale giovanile della forania di Conegliano ha organizzato una serata con Riccardo Milano, economista, ex promotore finanziario in seguito… “pentitosi” e diventato uno dei fondatori di Banca Etica. In una sala del Toniolo, presente circa un centinaio di persone, ha conversato sul tema “La crisi che fa crescere”. Crescere? Sì, perché in greco antico “crisi” è etimologicamente vicino al termine “opportunità”.
Il dott. Milano ha identificato sette tipi di crisi differenti; oltre alla economica e finanziaria, sotto gli occhi di tutti, siamo in mezzo ad una crisi delle teorie economiche: dal 1970 ad oggi ci sono state quattrocento crisi, e ora non esiste più un modello economico adatto ad affrontarle. Esiste poi una crisi della politica: negli ultimi trent’anni è essa stata fagocitata dalla finanza e non fa più il suo ruolo, per cui ha salvato le banche, prime responsabili di quanto sta accadendo; ma esse, oltre a non aver cambiato atteggiamento, ora ricattano gli stati chiedendo di adeguarsi quando dovrebbe essere il contrario, ed impongono ad essi tagli al welfare, additato come causa della rovina. La quinta crisi riguarda la fiducia: “credito” deriva da “credere” ma gli istituti di credito non si fidano tra di loro né si fidano dei cittadini. Da tutto questo nasce la crisi dell’etica, accantonata per creare una finanza senza alcun principio, e una crisi culturale: “Studiate – ha chiesto il dott. Milano agli studenti coneglianesi che componevano la maggioranza dei presenti, – perché se non si studia non si può capire la realtà e quindi trovare il modo di uscire da questa spirale, e perché “se non lo fate voi lo faranno gli indiani e i cinesi”.
La speranza ha due figli, ha affermato il dott. Milano citando sant’Agostino: l’indignazione e la voglia di cambiare. Da qui, secondo lui bisogna ripartire. Indignarsi per le forti disuguaglianze che questo sistema ha creato, indignarsi nel sapere che navighiamo senza saperlo sopra ad un mare di soldi, al confronto del quale il debito pubblico italiano è una bazzecola; soldi che potrebbero risolvere tanti problemi ma che sono controllati da poche centinaia di istituzioni private nel mondo. Indignarsi, e quindi cambiare: come? Attraverso lo studio, come già detto: in particolare e gli studenti nelle facoltà di economia devono pretendere dai loro insegnanti di studiare le alternative al sistema attuale, che ci sono. Si chiamano, per esempio, banca etica e mercato equo e solidale. Si cambia poi con la politica: “Anche se gli esempi attuali non sono incoraggianti – ha affermato – dobbiamo ricominciare ad occuparci di politica”, la “più alta forma di carità” secondo la definizione di papa Paolo VI. Nuove leggi che blocchino i meccanismi che permettono alla finanza di arricchire pochissime persone, che tassino le transazioni finanziarie, che eliminino i paradisi fiscali. La dottrina sociale della Chiesa – ha concluso – ci chiede infine di cambiare il nostro stile di vita: occorre più sobrietà, maggiore capacità di ascolto, nuove relazioni con gli altri.

L’Azione, domenica 8 dicembre 2013

V per coerenza

Wallpaper ~ #3 Guy Fawkes Mask

Oggi ricorre il 407° anniversario della cosiddetta “Congiura delle polveri”, ovvero il tentativo fallito da parte di Guy Fawkes e dei suoi uomini di far scoppiare una rivoluzione a Londra, facendo saltare in aria il re ed il suo governo riuniti nella Camera dei Lord.

La sua figura (nel vero senso della parola) ha guadagnato popolarità a livello mondiale per l’uso che se n’è fatto dopo l’uscita del film V per vendetta (2006), noiosa trasposizione cinematografica dell’omonimo fumetto di Alan Moore, pubblicato negli anni ’80 e noto, fino a sei anni fa, solo ad una nicchia di appassionati del genere.

Il protagonista di film e fumetto infatti, indossava una caratteristica maschera riproducente le fattezze di Fawkes; la stessa maschera è stata adottata come simbolo dai misteriosi hackers di Anonymous e, in seguito, da numerosissimi attivisti che, in tutto il mondo, si riconoscono nel movimento degli indignados o che in generale partecipano a manifestazioni di protesta contro la politica, le banche e la finanza.

Personalmente mi trovo a condividere le motivazioni che alimenta questo genere di attivismo, dal quale noi italiani, ancorati come siamo a forme di protesta vecchie e pure controproducenti, avremo molto da imparare. Dovrebbe essere chiaro a tutti però che per combattere un sistema di cose non si può allo stesso tempo alimentarlo, ed è per questo che rimango assai perplesso sull’uso della maschera di Guy Fawkes: si tratta, quest’ultimo, di un prodotto i cui diritti sono detenuti dalla Time Warner la quale, grazie ad essa, sta facendo soldi a palate.

Guy Fawkes, inoltre, architettò l’attentato al parlamento inglese nel 1605 per motivi di discriminazione religiosa. Di fede cattolica, organizzò con i suoi uomini questo attentato contro Re Giacomo I quando capì che quest’ultimo, protestante, non avrebbe concesso la libertà religiosa agli inglesi rimasti fedeli al Papa.

Fawkes fallì nei suoi intenti, e per questo fu torturato, processato sommariamente e barbaramente ucciso.

Guy Fawkes, insomma, è una specie di martire per la fede cattolica. E se non fosse per il fatto che scelse la strada della violenza, la sua esperienza in fondo somiglierebbe a quella di certi beati o santi.

Sintetizzando: chi compra la sua maschera lo sa che protesta contro lo strapotere della finanza finanziando una delle più grandi multinazionali dei media al mondo, per impersonare la figura di un… terrorista cattolico?