Serge Latouche a Sernaglia della Battaglia

C’era veramente, ed è proprio il caso di dirlo, il pubblico delle grandi occasioni lo scorso giovedì 8 novembre nella sala convegni comunale di Sernaglia della Battaglia: per il filosofo francese Serge Latouche l’affluenza è stata ben superiore ai duecento posti della capienza della sala, al punto che gli ultimi arrivati hanno dovuto accontentarsi della diretta televisiva all’esterno dell’edificio.
La serata è stata organizzata dall’amministrazione comunale e da La Chiave di Sophia, quadrimestrale di filosofia di Santa Lucia di Piave.
Il relatore, curiosamente, ha iniziato prendendo le distanze dalla definizione di “filosofo della decrescita felice”, che gli viene attribuita solo in Italia, vista l’ambiguità del termine. Il concetto di “felicità” infatti si diffonde in occidente solo nell’epoca dei Lumi: se prima, in una società fortemente cristianizzata, si parlava di “beatitudine”, quest’ultima gradualmente ha ceduto il passo appunto al concetto di “felicità”, concetto figlio di una società laica, borghese e fortemente individualista. In cosa consistesse la felicità l’hanno spiegato gli economisti: nel consumare, nell’aumento del Prodotto Interno Lordo. Se quindi la “beatitudine” ambiva ai beni spirituali, la felicità ora ambisce ai beni materiali, e da qui si è innescata una folle corsa alla crescita fine a se stessa basata sulla creazione di bisogni artificiali.
Ciò che però auspica Latouche non è una decrescita felice, con una conseguente diminuzione del PIL, quanto piuttosto l’uscire da questa logica di consumo che permea le nostre vite, ed è per questo che più che di “decrescita” sarebbe più corretto parlare di “acrescita”.
Il filosofo ha quindi voluto ricordare un figlio della nostra terra, quel Pier Paolo Pasolini che già aveva trattato a suo modo questi temi negli anni ’60 e ’70 e che quindi può essere annoverato tra i precursori della decrescita. Fu lui, per esempio, a far notare come il consumo si basi sull’infelicità e che la pubblicità a questo proposito serva a generare un senso di insoddisfazione in chi la fruisce. Ma questa “società della scarsità”, come l’ha definita, produce “lo spettacolo dell’abbondanza” negli scaffali dei supermercati e questa, a sua volta, produce sprechi e rifiuti.
Ma come si può uscire da tutto questo? Innanzitutto “ponendo un limite ai nostri bisogni”, perché in caso contrario non potremmo mai liberarci dal senso di insoddisfazione generato dal consumismo. E poi con un ritorno alla frugalità di un tempo, che non significa attuare una politica di austerità, quanto piuttosto sviluppare una “capacità di autolimitarsi”, soddisfare i propri bisogni senza consumare all’infinito.
A questa scelta etica che incide sul personale, occorre però una seconda scelta che incida a livello globale: una scelta comunicativa. La nostra è l’unica società della storia che si basa su concetti come competitività, razionalità ed efficienza, quando invece le altre cercavano la saggezza. E i saggi di tutte le civiltà hanno sempre sostenuto che il senso della misura è fondamentale per vivere bene. Occorre quindi un “mutamento antropologico” che riporti l’economia all’interno dei limiti posti dalla società e dalla politica. Latouche ha parlato di “buonsenso di un bambino di cinque anni”: parafrasando il grande attore Groucho Marx, ha concluso sostenendo che basterebbe un bambino di cinque anni per far capire ai politici che “una crescita infinita è incompatibile con un mondo finito”.

L’Azione, domenica 18 novembre 2018

Così gestiamo i profughi

Il cancello d’ingresso della caserma Zanusso

Ecco l’intervista, concessa in esclusiva a L’Azione, a Gian Lorenzo Marinese, presidente di Nova Facility Srl, l’azienda che ha attualmente in gestione il centro di accoglienza per richiedenti asilo situato presso l’ex caserma Zanusso di Oderzo. Ringrazio Carmela, Sara, Annachiara e Gian Lorenzo per l’aiuto e la disponibilità, e pure la redazione che ha pubblicato quasi integralmente un articolo di dodicimila battute (ovvero l’equivalente di 5-6 articoli normali del settimanale).

Quella tra la città di Oderzo e il centro straordinario di accoglienza per richiedenti asilo ospitato all’ex caserma Zanusso è una convivenza non certo iniziata col piede giusto. A venti mesi dalla sua apertura abbiamo deciso di fare un po’ di chiarezza su come viene attualmente gestita con chi se ne occupa in prima persona: Gian Lorenzo Marinese è presidente di Nova Facility, società di Treviso che oltre a dirigere i centri della caserma Serena di Treviso e l’Hotel Winkler a Vittorio Veneto, da gennaio si occupa anche della Zanusso.
È la prima volta che Marinese sceglie di parlare alla stampa di questo argomento.
Dottor Marinese, potremmo iniziare con qualche numero…
In realtà numeri non ne posso dare perché questi sono appannaggio della Prefettura: è una linea comunicativa del Ministero degli Interni legata a interessi di ordine pubblico, e che ritengo saggia e prudente. Ma i numeri a mio dire non sono il centro dell’argomento: mi interessa di più spiegare cosa significa “accoglienza” dal nostro punto di vista.
Una parte della popolazione non vede bene di buon occhio la caserma…
Io comprendo le preoccupazioni della signora Maria che abita accanto ad una struttura dove da un giorno all’altro arrivano cinquecento persone sconosciute e che non parlano la sua lingua: sarebbero preoccupati anche i genitori di questi ragazzi se noi ci trasferissimo in massa nei loro paesi, perché talvolta si ha paura di ciò che non si conosce. Ma noi viviamo in un territorio di persone estremamente aperte e volenterose di aiutare; non dimentichiamo che la caserma si affaccia su via per Piavon, e che il primo “Giusto per le Nazioni” veneto, Clelia Caligiuri, era di Piavon. Il nostro territorio, in situazioni più difficili di questa, ha saputo accogliere.
La vicinanza che percepisco a Oderzo da parte delle parrocchie, di associazioni che lavorano silenziosamente, di privati che bussano al nostro cancello e chiedono “Per caso c’è un bambino? Abbiamo un gioco da darvi”, a me apre il cuore: questo insegno ai ragazzi della caserma. E ogni giorno gli insegniamo che non deve essere la signora Maria, che non li conosce, a farsi avanti per prima, ma che sono loro, essendo ospiti in questo territorio, che devono fare la prima mossa.
Può capitare che qualche ragazzo girando per la città si senta malvisto. Ma quando viene a dircelo gli rispondiamo: com’eri uscito quella mattina? Per fare un esempio, a ognuno di loro forniamo un kit con dei vestiti e le scarpe: è un decreto ministeriale del 2008 che me lo impone. Spesso ci sono ragazzi che arrivano in centro in pigiama: non l’hanno mai avuto in vita loro e quindi non capiscono la differenza rispetto a un vestito “normale”. Il nostro scopo quindi è risvegliare in ragazzi che provengono da una cultura diversa il desiderio di integrarsi, altrimenti non andranno da nessuna parte: per questo vi è un “design dell’accoglienza”.
Di cosa si tratta?
Noi lavoriamo su programmi annuali, perché quella è la durata minima dei bandi ministeriali. Questo “design” prevede quindici giorni di forte mediazione linguistica e culturale: spieghiamo loro dove si trovano, quali sono i servizi della struttura, le basilari regole del convivere civile secondo le nostre abitudini. Poi ci sono due mesi e mezzo di italiano intensivo: un laureato, specie se francofono, in un mese e mezzo riesce a comprendere perfettamente la lingua; per un afghano, specie se analfabeta, è ovviamente più difficile. Al termine i ragazzi vengono inseriti in una classe in base al loro livello di apprendimento: a Treviso abbiamo svariati livelli. Ci restano dai tre ai sei mesi, a discrezione degli insegnanti, poi vengono iscritti ad un centro di formazione per adulti. Questo alla fine rilascerà un certificato di italiano A2, obbligatorio per l’iscrizione al corso di sicurezza sul lavoro.
In che modo i ragazzi vengono preparati a lavorare?
Abbiamo accordi con vari centri di formazione: a Treviso, per esempio, con scuole professionali e licei, dove abbiamo ragazzi iscritti. Cerchiamo di assecondare chi ha ambizioni di studiare o imparare un mestiere: abbiamo anche un giovane che ha vinto un bootcamp a Ca’ Foscari, per dire… Parliamo di ragazzi di culture e capacità diversissime, dunque non si possono fare programmi generali. Inoltre organizziamo dei corsi interni: alla Zanusso si può diventare pittore, muratore, cartongessista, e incentiviamo moltissimo le arti, con un insegnante di disegno nostro dipendente. Vogliamo insomma che tengano allenata la mente, il fisico, ma anche l’attività ricreativa e intellettuale: a Fratta di Oderzo abbiamo un ragazzo che suona in chiesa e che sta cercando un corso di musica con l’aiuto del parroco, mentre a Treviso realizzato spettacoli teatrali con la compagnia Tremilioni di Conegliano, uno dei quali inserito nel programma di CartaCarbone festival.
Dopo quasi un anno è tempo di bilanci.
La caserma è aperta da aprile 2016. Noi siamo lì dal 20 gennaio 2017 e il 31 dicembre scadrà il nostro affidamento, in base all’appalto pubblico che abbiamo vinto. Il nostro lavoro l’abbiamo fatto: vada su Google Earth e guardi com’era la caserma prima e com’è ora: sembrava fosse in mezzo alla foresta, mentre oggi è un centro pulito e dignitoso. Inoltre nei cinque mesi prima del nostro arrivo i ragazzi inscenarono proteste un paio di volte; dopo il nostro arrivo, più nulla: questo è un messaggio di tranquillità che voglio lanciare alla popolazione. Non stiamo incentivando alcuna invasione, ma lavoriamo per fare in modo che delle persone, che sarebbero rimaste volentieri a casa loro, si formino, si integrino, capiscano le nostre regole: voglio che si ricordino di noi come le ultime persone che le hanno aiutate, perché poi dovranno iniziare una vita da soli. Ma se non preparano con noi una “valigia” che gli permetta di affrontare questa vita, questa valigia rimarrà vuota.
Antonio Silvio Calò [il cittadino di Povegliano che ospita a casa propria cinque rifugiati, n.d.r.] sostiene che i migranti, una volta ottenuto lo status di rifugiato, vengano abbandonati a se stessi…
Il professor Calò ha perfettamente ragione! Le cosiddette seconda e terza accoglienza oggi sono il punto debole del sistema: una volta ottenuto o meno lo status di rifugiato, che succede? Per questo tra i nostri obbiettivi c’è anche quello di far conoscere questi ragazzi alla popolazione tramite i nostri progetti, fare in modo che possano crearsi delle opportunità per il dopo. Per questo motivo la collaborazione con la società è fondamentale.
A questo proposito, come vi state muovendo?
La caserma Zanusso, proprio come la Serena, ora ha una squadra di calcio iscritta alla lega amatori. La lega di Treviso però, che va elogiata per la grande disponibilità: purtroppo quella di Oderzo non l’ha accettata avendo già un numero di squadre pari in campionato. I ragazzi si allenano d’inverno nel nostro piazzale, mentre nel resto dell’anno al Patronato Turroni; le partite le giocano a Fratta. Per questo, e per altro, va elogiata anche la diocesi di Vittorio Veneto: don Pierpaolo e don Lorenzo sono in continuo contatto con noi, così come padre Massimo del Brandolini, e potrei continuare coi nomi di altri parroci…
«Non dimentichiamo che in questo primo anno di gestione abbiamo anche dovuto sistemare la situazione pregressa – aggiunge Sara Salin, portavoce della cooperativa. – A Treviso ci sono più opportunità perché lì abbiamo due anni di lavoro in più alle spalle. Ma per dire, un progetto sulle ninne nanne del mondo scritte e illustrate sugli autobus di Treviso ha coinvolto una scuola primaria di Vittorio Veneto e proprio la caserma Zanusso, dove c’è un gruppo con una propensione maggiore alla pittura rispetto al capoluogo, dove preferiscono il teatro. Di progetti se ne possono avviare tantissimi: a Treviso i richiedenti asilo fanno servizio di apertura e chiusura in un parco giochi, hanno restaurato una ex scuola, hanno ripulito il Sile; ogni giorno una cinquantina di loro esce dalla caserma e ripulisce le strade. Sono tutti benefici per la comunità, e un modo per questi ragazzi per sentirsi utili e importanti. Dopo tre anni, ora sono le associazioni di volontariato che vengono da noi a chiedere aiuto: la città si è accora di loro».
A Oderzo invece per ora se ne sono accorte più che altro le parrocchie – ammette Marinese – ma a prescindere se ci saremo ancora noi o meno nei prossimi anni se ne accorgeranno anche gli altri. Bisogna avere pazienza, sensibilizzare e non demordere. Non vogliamo accelerare i tempi, ma Oderzo è una città viva e di cultura e siamo sicuri che presto sarà pronta a questi tipi di collaborazione.
In questo momento però il mondo delle cooperative non gode di una buona reputazione…
Operiamo in un settore che purtroppo è rimasto invischiato in Mafia Capitale, mentre qui vicino per esempio c’è stato il caso del CARA di Cona, dove lavora la cooperativa che aveva in gestione la caserma Zanusso l’anno scorso… Come in tutti i settori, anche nel nostro ci sono operatori più sani e meno sani, non bisogna fare di ogni erba un fascio.
Qualcuno dovrebbe senz’altro cambiare mestiere, anche perché chi non è onesto e professionale danneggia tutti: potete immaginare cosa può uscire da un centro dove i richiedenti asilo rimangono al chiuso, non studiano italiano, non sanno cosa sia un corso professionale. In Italia siamo quattromila soggetti a fare accoglienza: ce ne sono di buoni e di ottimi, e spero siano la maggioranza. A Oderzo i problemi logistici della gestione precedente hanno creato un danno di immagine; gli ospiti hanno protestato, ma non dimentichiamo che se è frequente litigare in un condominio, figuriamoci in una comunità con centinaia di persone di nazionalità diverse.
A proposito di immagine: che ruolo hanno avuto in questo senso i media e internet?
Guardi: dieci mesi fa ho cambiato il cancello di ingresso della caserma, e ancora su internet e sui giornali continua a comparire la stessa foto del vecchio cancello col sindaco davanti. Sul nuovo cancello ho voluto lasciare una feritoia con un vetro: chiunque può guardarci dentro, ma è come se nessuno l’avesse mai fatto. Poi, per partecipare a “Balcone fiorito”, abbiamo ulteriormente abbellito l’entrata, ma sui giornali è finita una foto di un balcone posteriore…
Nel nostro territorio, pur essendoci giornalisti che lavorano bene, nessuno ci ha mai contattato per chiederci qualcosa di specifico sulla Zanusso. Capisco che l’albero che cade faccia più rumore della foresta che cresce, ma a me dispiace che se i nostri ragazzi si prendono a schiaffi finiscono in prima pagina, mentre se vanno a trovare papa Francesco finiscono a pagina 9. E non per un incontro fugace: sono stati fatti accomodare in prima fila, il Santo Padre si è fermato a parlare con loro e ha guardato i regali che gli avevano preparato. Non dico tutto questo per far polemica: voglio che queste mie parole siano di apertura.
A Oderzo, se qualcuno si mette alle sei-sette di mattina davanti al nostro cancello vedrà cento persone uscire con un permesso speciale per andare al lavoro [gli altri possono uscire dalle 8 alle 20, n.d.r.], in aziende del territorio. Molto di più, in percentuale, che a Treviso: vorrei che si sapesse.
Se qualcuno ha bisogno della vostra manodopera, cosa può fare?
I ragazzi sono normalmente iscritti al centro per l’impiego: se qualcuno vuol farli lavorare, lì troverà i curricola dei nostri ragazzi. Per opere di volontariato invece è più complicato, perché occorre presentare un progetto.

L’Azione, domenica 17 dicembre 2017

 

La provenienza dei richiedenti asilo
Le provenienze dei richiedenti asilo ricalcano in percentuale quelle degli arrivi:
• 30% circa Nigeria
• 30% Africa sub sahariana di area francofona
• 40% Pakistan e Afghanistan
• In parte sono arrivati dal sud Italia, altri dalla “rotta balcanica” prima che venisse chiusa.
• Alcuni sono “dublinanti”, termine che indica coloro che per in base ai trattati di Dublino hanno fatto richiesta di asilo in altri paesi, tipo Grecia o Croazia, che sono stati giudicati incapaci di accogliere tali richieste e che per questo stanno in una specie di limbo a livello giuridico.

Giovanni Betto, dal teatro al cinema

fonte: Circolo Cinematografico Enrico Pizzuti

Tra gli attori non protagonisti di Finché c’è prosecco c’è speranza figura anche l’attore coneglianese Giovanni Betto, che abbiamo contattato per farci raccontare questa sua piccola prima esperienza cinematografica.

Come sei finito a fare il film?
Come un perfetto sconosciuto: mi sono iscritto al casting. Poi è successo un piccolo disguido: il giorno prima dei provini mi ha chiamato un’amica dicendo che stavano cercando qualcuno disposto a “dare le battute” ai partecipanti al casting (i quali in sostanza fanno il provino rispondendo a un attore); ho dato la mia disponibilità specificando però che avrei sperato di partecipare anch’io… Dopo due ore la produzione del film mi ha chiamato dicendo che c’era stato un errore e che avrei fatto il provino.

E quindi?
Ho fatto il provino col regista, il qualche mi ha fatto recitare due-tre volte qualche battuta che mi avevano mandato il giorno prima, e poi gli ho raccontato chi sono e cosa faccio nella vita: due giorni dopo mi ha chiamato il produttore dicendomi che il regista mi voleva per la parte. Evavamo in cinque a contendercela; era la prima volta che partecipavo ad un casting, peraltro in un luogo che non mi aspettavo: il municipio di Conegliano. Per il teatro non ne avevo mai fatti.

Che differenza hai riscontrato rispetto alla recitazione a teatro?
Non credo di poter rispondere a questa domanda visto che il cinema l’ho solo sfiorato, avendo una parte minore: non avevo ottanta scene su centodieci come il protagonista Giuseppe Battiston, e un impegno quasi quotidiano sul set. In cinque settimane di riprese sono stato presente cinque giorni, con scene da sei-sette battute: potrei dirti che insomma è stata un’esperienza rilassante, quasi di divertimento; non ho conosciuto la fatica del set.
Diciamo che dopo questa mia piccola esperienza posso dire che a teatro si fa più fatica: è tutto in diretta e non si può sbagliare, c’è una tensione emotiva diversa. Ma è stato interessante vedere da dentro questa macchina enorme che si muove, con molta tecnica e precisione… e con tempi lunghissimi: si viaggiava a tre-quattro scene a giorno.

Eppure non sembravano scene particolarmente complesse.
Non è esatto. Mi sono reso conto che quello che uno vede sullo schermo è molto poco: due minuti di film corrispondono a una scena ripetuta una decina di volte, tagliata e montata.

Qual è la tua opinione sul film e sul suo tema?
Secondo me è un film garbato, e dal mio punto di vista è uno dei suoi punti di forza. Delle persone hanno storto il naso perché ritengono il film un grosso spot per i produttori di vino, o perché non ha calcato molto sul problema dei pesticidi, ma io non credo all’arte che approccia certe tematiche in modo urlato, con una certa violenza, seppur verbale: non funziona. Secondo questo approccio me funziona meglio: quello che voleva dire il film viene detto con stile e con frasi precise, per esempio “Non si chiede alla terra più di quello che ci può dare”. Il messaggio insomma è chiaro se lo si vuol capire. La sua è una denuncia tranquilla: non mi sarebbe piaciuto un film che strepita.

Sei soddisfatto della tua prova di attore?
Mannaggia! Mi hanno tagliato una bella scena, ma il film una volta montato durava due ore e cinque minuti, per cui hanno dovuto tagliare mezz’ora. Nonostante questo sono rimasto contento… e credo anche di essermela cavata bene.

Che riscontri hai avuto dal pubblico?
Certo, io sono di parte, ma ho letto commenti in rete e messaggi sul mio telefono numerosi e mediamente entusiasti. Il primo giorno di programmazione ho avuto notizie da Treviso, Pordenone e Conegliano di gente rimasta fuori dai cinema, e il film è stato distribuito in più sale del previsto. Ho letto una bella recensione ne “Il Foglio”, e anche Marzullo ne ha parlato bene; certo non entrerà nella storia, ma è un buon film che mostra la bellezza e allo stesso tempo la fragilità del nostro territorio.

L’Azione, domenica 26 novembre 2017

L’Atlante dei Classici Padani a Motta di Livenza

padaniaclassics

Recentemente Alberto Angela ha deliziato il suo pubblico del sabato sera su Rai Tre con due puntate sul Veneto, mostrando bellezze spesso poco conosciute anche da noi che ci abitiamo: purtroppo ci è molto più familiare un altro tipo di paesaggio nostrano, ovvero quello delle zone industriali, degli outlet, delle rotatorie. Il prezzo salato che la nostra regione ha pagato al progresso è una distesa di asfalto e cemento cresciuta senza ordine e oltretutto senza gusto estetico.
Se nel medioevo gli artisti e i letterati crearono l’Italia attraverso la cultura, negli ultimi trent’anni invece politici e imprenditori settentrionali attraverso l’edilizia hanno creato una nuova entità territoriale: è questa la cosiddetta “macroregione” trattata dall’Atlante dei Classici Padani, volume fotografico che verrà presentato giovedì 10 novembre alle ore 20.45 a Motta di Livenza, presso la Fondazione Giacomini. Il libro è frutto di un progetto di due bresciani, l’artista Filippo Minelli e il giornalista Emanuele Galesi, i quali partendo da una pagina Facebook chiamata “Padania Classics” hanno innescato un dibattito, serio ma con un pizzico di ironia, sull’idea di sviluppo che ha caratterizzato dagli anni ’70 in poi almeno tre regioni italiane (Piemonte, Lombardia e Veneto).
Capannoni, parcheggi, cartelloni pubblicitari, condomini, chiese post conciliari, palme da giardino, villette a schiera: attraverso un uso della fotografia inconsueto, perché cerca il banale e lo sciatto, questo “Atlante” vuole mostrare quanto la corsa alla cementificazione abbia finito per influenzare la vita, a volte perfino nella sfera religiosa, di chiunque viva nell’area compresa tra Torino e Trieste.
La serata, che sarà moderata dal nostro collaboratore e critico d’arte mottense Carlo Sala, che è pure autore della prefazione del libro, è organizzata dall’Associazione Fucina n. 4 nell’ambito del 150° anniversario dell’annessione del Veneto all’Italia.

L’Azione, domenica 6 novembre 2016

Festival del Bene Comune 2014

Torna anche quest’anno a Oderzo il Festival del Bene Comune, appuntamento organizzato dai Giovani per Oderzo che quest’anno ha come tema “Il paesaggio come bene comune”.
Per la prima volta la manifestazione si svolgerà in due giornate, sempre presso il parco antistante alle piscine. SI comincia venerdì 27 giugno con l’apertura del chiosco alle 19 seguito alle 21 dal concerto dei North East Ska Jazz Orchestra, formazione di quindici elementi con base in Friuli che propone una selezione di standard jazzistici riletti in chiave reggae e ska.
La mattina dopo alle ore 9 prenderà il via una pedalata che attraverserà la campagna opitergina, la quale sarà illustrata dai volontari del Circolo Legambiente Piavenire di Maserada sul Piave. Alle ore 12 ci sarà il “pranzo solidale” aperto a tutti, per il quale si richiede un contributo di 5 euro (3 euro per i minori di 12 anni).
Nel pomeriggio saranno attivi nel parco gli stand di varie associazioni no profit operanti nel territorio e della casa editrice Becco Giallo; sarà inoltre possibile scambiare libri usati nella “biblioteca ambulante” del gruppo organizzatore e assistere alla performance dal vivo dei writers dell’associazione Kantiere Misto, i quali ridipingeranno le pareti esterne del Palazzetto dello Sport come esempio di riqualificazione urbana.
Alle 18 prenderà il via una conferenza dal titolo “Difendere i fiumi per salvare il paesaggio” con Fausto Pozzobon di Legambiente, la dott.ssa Nadia Breda, ricercatrice antropologa dell’Università di Firenze, e il dott. Alessandro Pattaro, ingegnere idraulico coordinatore del contratto di fiume Meolo – Vallio – Musestre. A partire dalle ore 19, musica dal vivo prima con gli allievi dell’Istituto Celleghin di Colfrancui, e poi con i Folk Fiction, duo opitergino di musica da ballo popolare. Il festival possiede la certificazione di Eco-evento rilasciata da Savno Servizi.

L’Azione, domenica 29 giugno 2014

Festival del Bene Comune 2013

Questo sabato torna il Festival del Bene Comune. L’iniziativa, organizzata dai Giovani per Oderzo, è alla sua seconda edizione e si terrà, anche questa volta, al parco antistante le piscine di Oderzo nel pomeriggio dell’8 giugno.
Il “bene comune”, in molte delle sue sfaccettature, è il filo conduttore delle iniziative legate a questa giornata di musica, eventi, informazioni ed apprendimento che coinvolge, oltre all’associazione organizzatrice, anche varie realtà di volontariato dell’opitergino. Il programma, in aggiornamento costante, prevede a partire dalle 14.30 l’incontro del Gruppo Lettura Giovani alle prese con Nel segno della pecora di Haruki Murakami, aperto sia a chi conosce questo testo sia a chi vuole scoprire come funziona un gruppo di lettura. Seguono le letture da “Fabrica e altre poesie” a cura del poeta mottense Fabio Franzin (ore 15.30), l’esibizione di danza a cura di Doublemind Dance School alle 16 e alle 16.45 la premiazione del concorso abbinato al festival. La giornata termina con quattro concerti: gli Accastorta (Folk’n’roll band) si esibiranno alle 17, seguiti da una dimostrazione/introduzione ai balli popolari alle 18.30 con concerto finale dei Folk Fiction. Alle 20.30 salirà sul palco il Kem Acoustic Trio, i quali apriranno il concerto dei Radiofiera alle ore 21. Durante tutta la giornata sarà allestito un chiosco e lo scambio libri gratuito dei Giovani per Oderzo, e saranno presenti le bancarelle del Gruppo di Acquisto Solidale, della Bottega del Mondo, di Piazza del Baratto e Kantiere Misto, e ancora di Lega Ambiente, Emergency, ISTRESCO, Salviamo il Paesaggio e Qui Piave Libera. Tutte le info su www.giovaniperoderzo.it

L’Azione, domenica 9 giugno 2013

Paola De Pin: a Roma per cambiare

In principio fu Tommaso Tonello, senatore della prima legislatura. Poi Giuseppe Covre, nativo di Santa Maria del Palù e quindi con un piede a Fontanelle. Ed ora Paola De Pin, 46 anni di Lutrano, è il terzo cittadino di Fontanelle ad entrare in parlamento, come senatrice del Movimento 5 Stelle. Mamma ed imprenditrice, è proprietaria di un negozio che fornisce servizi e materiali per la stampa, e in particolare di rigenerazione di cartucce per stampanti.
E’ insolito vedere una persona passare dalla gestione di un piccolo negozio ad un posto in parlamento. Visto che il resto della famiglia rimane a casa, come pensa di riuscire a conciliare ora lavoro, famiglia e Senato?
Diventa difficile, l’ho detto fin dall’inizio. Cederò l’attività, e la famiglia rimarrò qui fino al termine della scuola. Poi si vedrà, vedendo anche quali saranno le prospettive di questo governo, che visto i presupposti non potrebbe avere vita lunga.
Secondo lei, qual è la tipologia di persone che ha votato per il Movimento qui nel trevigiano?
Il Movimento è trasversale, e ha raccolto preferenze a destra, sinistra e centro. Noi pensiamo che per cambiare bisogna uscire da queste definizioni superate.
Sicuramente ora ci sarà chi le rinfaccerà la sua mancanza di esperienza a livello amministrativo.
Certo. Ma non ho visto grandi risultati da parte di politici che sono a Roma da trent’anni: la situazione è tragica e chi l’esperienza ce l’ha non ha migliorato la situazione: stiamo perdendo punti in tutti i settori: industria, scuola, sanità, giustizia… Ma chi meglio di una persona che ha il contatto con la realtà può amministrare la cosa pubblica? Sono laureata in scienze politiche e all’Università queste cose te le insegnano. Il Movimento propone una politica che parte dal basso, visto che c’è chi è partito dall’alto e ha combinato solo disastri. Per fare politica occorrono sani principi, onestà, e un programma da mandare avanti.
Vista la situazione di stallo che si profila al Senato, cosa ritieni che possa accadere? Il M5S può diventare l’ago della bilancia: come faresti pesare i tanti voti guadagnati per sbloccare la situazione?
Stiamo alla finestra, per ora. Non ci alleiamo con nessuno. L’ipotesi è riprodurre il modello Sicilia, ovvero approvare e portare avanti le buone proposte della maggioranza. Bisogna trarre il meglio da questa situazione.
Una volta che si sarà chiarita la situazione, quali sono le primissime mosse che intendete fare a Roma?
Intanto rinunceremo ai rimborsi elettorali e ci taglieremo lo stipendio del 70%, facendo risparmiare moltissimo allo Stato. Io darei la precedenza alla nuova legge elettorale: i candidati devono essere scelti dai cittadini, non calati dall’alto. Conosciuti, scelti e poi controllati direttamente: questa è la prima rivoluzione da compiere.
Il M5S ha promesso di portare trasparenza in parlamento. Che canali pensa di utilizzare per permettere ai cittadini del suo collegio di comunicare con te e viceversa?
Intanto ribadisco che non sono sola ma sono la portavoce del gruppo, e dovrò portare avanti le nostre proposte. Useremo i social network e apriremo un sito in cui quasi quotidianamente relazioneremo su cosa facciamo.
Il Movimento che risposte intende dare per ai problemi che affliggono il nostro territorio? Penso in particolare alla crisi che sta colpendo la piccola imprenditoria ma anche alla cementificazione e il dissesto idrogeologico.
Parlando con la gente vedo che il problema più sentito è il lavoro. Penso alle partite IVA e ai piccoli artigiani in difficoltà: una soluzione per loro potrebbe essere il microcredito e le agevolazioni alle piccole imprese. Chiaramente non pensiamo di cambiare l’economia italiana da oggi a domani, ci sono molti fattori da considerare, tra cui le varie imposizioni che ci arrivano dall’Unione Europea. E poi basta cementificazione: riqualificare le case vecchie, ridurre gli spreghi di energia, ridurre il dissesto idrogeologico creando così anche posti di lavoro.
Lei è anche mamma: quali sono le politiche che vorrebbe attuare il Movimento per sostenere la famiglia?
Questo è un punto che sento tanto. Tutti hanno il diritto a farsi una famiglia e i giovani sono particolarmente svantaggiati da questo punto di vista. Quanto sta succedendo è un’offesa gravissima ad un’intera generazione. I giovani chiedono solo di poter lavorare ma lavoro non se ne trova, altro che “choosy”, come disse la Fornero. Per sostenere la famiglia noi proponiamo il reddito di cittadinanza ma anche di ripensare le politiche per le donne che vogliono lavorare ed avere figli.
E’ vero che non volete essere chiamati onorevoli?
Chiaramente nelle sedi istituzionali rispetteremo il protocollo, ma a Fontanelle, Oderzo, Treviso io sarò sempre Paola.

da L’Azione, domenica 3 marzo 2013