Ho sognato che vinceva la Le Pen

Ho sognato che la Le Pen vinceva le elezioni.
Già, ho avuto un incubo ucronico, una cosa tra The Man In The High Castle e “Sottomissione” di Michel Houellebecq, e in quest’incubo Marine Le Pen vinceva le elezioni presidenziali francesi del 2017.
E poi, cosa avviene? Le Pen comincia nazionalizzando i cantieri navali di Saint-Nazaire per evitare che finiscano in mani straniere (ovvero italiane). Quindi mette in atto un’arrogante politica di chiusura delle frontiere, impedendo ai migranti di attraversare le Alpi, ma questo non le impedisce di fare ipocritamente la morale al suo omologo nonché ammiratore italiano Salvini, colpevole di comportarsi allo stesso modo.
La vecchia destrorsa inoltre non perde occasione, dal vivo o in televisione, di offendere operai in sciopero o disoccupati che contestano le sue politiche neoliberiste; di tutta risposta le contestazioni aumentano e quindi, per tutelare la propria incolumità, Marine promuove a capo della sicurezza un discutibile personaggio, violento e vicino ad ambienti massonici; chiamata a giustificare tale scelta, se ne esce con un laconico “Non è il mio amante”.
La popolarità della presidentessa scende, e così si sviluppa in tutto il paese un grande movimento trasversale e confusionario, i cosiddetti “Gilet gialli”, che per settimane mette a ferro e fuoco Parigi venendo presto criminalizzato dai media; il governo risponde scatenando una pesante repressione poliziesca.
D’altronde, cosa ci si poteva aspettare dal Front National?

Paradossalmente, a rilanciare la popolarità della prima donna presidente della repubblica francese arriva un gruppo di giovani calciatori con una forte presenza di figli di immigrati, il quale vince i mondiali di calcio 2018 consentendole di strumentalizzarne le vittoriose gesta, altro vizietto tipicamente fascista (si veda Italia 1934 e Argentina 1978).
Nell’estate 2020, con un rimpasto di governo, la Le Pen sposta quindi ancora più a destra l’esecutivo, inserendovi, tra l’altro, un ministro accusato di stupro. Da qui in poi è tutta in discesa: nel giro di un anno il suo governo emana due leggi contro l’estremismo islamico che provocano lo sdegno del mondo arabo, il quale accusa la presidentessa di voler colpire l’islam in generale, più che i fondamentalisti; nonostante questo, o forse proprio per questo, dopo alcuni mesi lei conferisce la Legion d’Onore al presidente egiziano Al-Sisi, spingendo il nostro connazionale Corrado Augias a restituire polemicamente la propria.

E poi?
E poi prosegue le politiche neocolonialiste dei suoi predecessori in Africa, e poi lo stato francese viene condannato per non aver rispettato gli accordi di Parigi (firmati quindi in casa propria) sul cambiamento climatico; e poi esce pulita da uno scandalo di riciclaggio di denaro tramite consulenze private; e poi aumenta considerevolmente il proprio patrimonio personale pur continuando a dichiarare relativamente poco al fisco; e poi abolisce la cosiddetta “imposta di solidarietà sulla fortuna”, riducendo quindi le tasse ai ricchi. E poi spinge fortemente una legge che rende un crimine fotografare e filmare poliziotti in azione, e poi uno studente universitario si dà fuoco in segno di protesta, e poi, e poi, e poi…
…E poi mi sono svegliato ed ho tirato un sospiro di sollievo pensando al fatto che oggi la Francia è guidata da un presidente giovane, europeista e attento ai diritti civili come Emmanuel Macron.
Una Francia dove tutto questo sarebbe stato pura fantascienza.

Razzismo e povertà: il dito e la luna

Ormai è passato più di un mese dalla morte di George Floyd, e mentre la copertura mediatica sul movimento Black Lives Matters nato a seguito di quel tragico evento si sta lentamente affievolendo, com’era assai prevedibile l’onda emotiva seguita a questo ennesimo esempio di brutalità mortale da parte della polizia americana sta sfociando anche in una crociata contro i simboli che a volte abbatte decisamente il muro del ridicolo.

L’ampia copertura mediatica della vicenda ha spinto i venti della protesta fin in Europa e quindi nel nostro paese. Questo sebbene in casa nostra, per inquadrare meglio il problema e studiare quindi delle soluzioni adeguate, sarebbe più appropriato parlare di xenofobia piuttosto che di razzismo.

Nei giorni scorsi si è parlato parecchio sull’opportunità di rimuovere, a Milano, la statua dedicata a Indro Montanelli a causa dell’ormai noto episodio che lo vide protagonista in Abissinia e del fatto che non l’abbia mai rinnegato; personalmente ritengo che questo dibattito potrebbe essere molto utile se riuscisse a mettere pesantemente in discussione l’immagine spesso edulcorata del grande buco nero della storia moderna europea, ovvero il colonialismo, ma non è questo il punto.

Se infatti il dibattito sulla statua di Montanelli nel dibattito pubblico ha più spazio delle battaglie di Aboubakar Soumahoro, vuol dire che c’è qualcosa che non va. Se si trasforma Soumahoro per due giorni in un idolo nazionale per aver asfaltato Salvini e poi ci si gira dall’altra parte se si incatena per protestare contro le politiche migratorie, c’è sempre qualcosa che non va.

Ritengo infatti che sarebbe ora passata di smettere di guardare il dito (il razzismo) e iniziare a guardare la luna (la povertà). Come dicono i rapporti del Censis, da noi se sei straniero e povero hai più probabilità di subire atti di razzismo, se invece sei italiano e povero hai più probabilità di diventare razzista (anzi, appunto, xenofobo).

Vogliamo mettere in discussione le disuguaglianze sociali, il nostro stile di vita? No. E i liberal americani che stanno marciando sul #blacklivesmatter, lo vogliono? Ancora meno.

Allora possiamo eliminare anche tutte le statue del mondo, tanto le cose non cambieranno.

Io, studente fortunato. Prince, invece, morto

Alberto Rosada è un giovani di Lutrano che presto compirà 21 anni, e che in questi giorni ha raggiunto un’inaspettata visibilità, anche a livello nazionale, a causa di un intervento molto appassionato che ha pronunciato in occasione della cerimonia di apertura dell’anno accademico dell’Università di Padova, tenutasi nella storica aula magna dell’ateneo lo scorso 8 febbraio.

Rosada ha partecipato alla cerimonia in quanto presidente, fresco di elezione, del consiglio degli studenti: un ruolo, quello di rappresentante studentesco, che con tutte le proporzioni del caso aveva già ricoperto tre anni fa al liceo classico “Antonio Scarpa” di Oderzo.

Alberto ha iniziato l’intervento ricordando Prince Jerry Igbinosa, il giovane di 25 anni laureato in Nigeria, emigrato in Italia e morto poco dopo che la sua richiesta di permanenza in Italia era stata respinta. «Lui era nigeriano, io sono italiano, e proprio perché sono italiano a qualcuno sembra che la mia vita valga di più», ha affermato. Negli appena sei minuti del suo discorso, facilmente rintracciabile su internet, Alberto ha toccato temi importanti come il taglio dei finanziamenti all’università, il precariato giovanile e il ruolo dell’ateneo patavino, per poi concludere chiudendo il cerchio nel ricordo di tre studenti provenienti dal Triveneto e morti tragicamente all’estero: Valeria Solesin, Antonio Megalizzi e Giulio Regeni.

Alberto non aveva ovviamente preso in considerazione che le sue parole avrebbero raggiunto una eco simile: «Tante condivisioni sui social network, segnalazioni sui giornali, messaggi privati…» afferma. E quindi pure un’ospitata in diretta a L’aria che tira, martedì 19 febbraio, su La7. Ma non tutti hanno gradito le sue parole: «Un assessore regionale presente in aula non ha apprezzato, e lo ha pure detto ai giornalisti – continua Alberto – ma non ci sono state altre reazioni negative pubbliche e questo mi ha sorpreso. Per il resto ho ricevuto tante attestazioni di solidarietà per questo attacco, e messaggi privati di persone che si sono riconosciute in quello che dicevo. Ma in realtà non mi sembra di aver detto niente di straordinario: ho solo ricordato un ragazzo che aveva quasi la mia età e voglia di studiare. Dovrebbe essere normale sostenere certi valori, ma il fatto che molti siano rimasti colpiti, e che vedano un segno di speranza nelle mie parole, è un sintomo della situazione che stiamo vivendo… Probabilmente nel dibattito pubblico questo tipo di prese di posizione hanno sempre meno forza. E anche il fatto che io sia stato accusato di “fare politica” in università significa che molti ancora confondono l’essere apartitici con l’essere apolitici. E io, visto il mio ruolo di rappresentanza, non posso essere apolitico».

L’Azione, domenica 24 febbraio 2019

Così gestiamo i profughi

Il cancello d’ingresso della caserma Zanusso

Ecco l’intervista, concessa in esclusiva a L’Azione, a Gian Lorenzo Marinese, presidente di Nova Facility Srl, l’azienda che ha attualmente in gestione il centro di accoglienza per richiedenti asilo situato presso l’ex caserma Zanusso di Oderzo. Ringrazio Carmela, Sara, Annachiara e Gian Lorenzo per l’aiuto e la disponibilità, e pure la redazione che ha pubblicato quasi integralmente un articolo di dodicimila battute (ovvero l’equivalente di 5-6 articoli normali del settimanale).

Quella tra la città di Oderzo e il centro straordinario di accoglienza per richiedenti asilo ospitato all’ex caserma Zanusso è una convivenza non certo iniziata col piede giusto. A venti mesi dalla sua apertura abbiamo deciso di fare un po’ di chiarezza su come viene attualmente gestita con chi se ne occupa in prima persona: Gian Lorenzo Marinese è presidente di Nova Facility, società di Treviso che oltre a dirigere i centri della caserma Serena di Treviso e l’Hotel Winkler a Vittorio Veneto, da gennaio si occupa anche della Zanusso.
È la prima volta che Marinese sceglie di parlare alla stampa di questo argomento.
Dottor Marinese, potremmo iniziare con qualche numero…
In realtà numeri non ne posso dare perché questi sono appannaggio della Prefettura: è una linea comunicativa del Ministero degli Interni legata a interessi di ordine pubblico, e che ritengo saggia e prudente. Ma i numeri a mio dire non sono il centro dell’argomento: mi interessa di più spiegare cosa significa “accoglienza” dal nostro punto di vista.
Una parte della popolazione non vede bene di buon occhio la caserma…
Io comprendo le preoccupazioni della signora Maria che abita accanto ad una struttura dove da un giorno all’altro arrivano cinquecento persone sconosciute e che non parlano la sua lingua: sarebbero preoccupati anche i genitori di questi ragazzi se noi ci trasferissimo in massa nei loro paesi, perché talvolta si ha paura di ciò che non si conosce. Ma noi viviamo in un territorio di persone estremamente aperte e volenterose di aiutare; non dimentichiamo che la caserma si affaccia su via per Piavon, e che il primo “Giusto per le Nazioni” veneto, Clelia Caligiuri, era di Piavon. Il nostro territorio, in situazioni più difficili di questa, ha saputo accogliere.
La vicinanza che percepisco a Oderzo da parte delle parrocchie, di associazioni che lavorano silenziosamente, di privati che bussano al nostro cancello e chiedono “Per caso c’è un bambino? Abbiamo un gioco da darvi”, a me apre il cuore: questo insegno ai ragazzi della caserma. E ogni giorno gli insegniamo che non deve essere la signora Maria, che non li conosce, a farsi avanti per prima, ma che sono loro, essendo ospiti in questo territorio, che devono fare la prima mossa.
Può capitare che qualche ragazzo girando per la città si senta malvisto. Ma quando viene a dircelo gli rispondiamo: com’eri uscito quella mattina? Per fare un esempio, a ognuno di loro forniamo un kit con dei vestiti e le scarpe: è un decreto ministeriale del 2008 che me lo impone. Spesso ci sono ragazzi che arrivano in centro in pigiama: non l’hanno mai avuto in vita loro e quindi non capiscono la differenza rispetto a un vestito “normale”. Il nostro scopo quindi è risvegliare in ragazzi che provengono da una cultura diversa il desiderio di integrarsi, altrimenti non andranno da nessuna parte: per questo vi è un “design dell’accoglienza”.
Di cosa si tratta?
Noi lavoriamo su programmi annuali, perché quella è la durata minima dei bandi ministeriali. Questo “design” prevede quindici giorni di forte mediazione linguistica e culturale: spieghiamo loro dove si trovano, quali sono i servizi della struttura, le basilari regole del convivere civile secondo le nostre abitudini. Poi ci sono due mesi e mezzo di italiano intensivo: un laureato, specie se francofono, in un mese e mezzo riesce a comprendere perfettamente la lingua; per un afghano, specie se analfabeta, è ovviamente più difficile. Al termine i ragazzi vengono inseriti in una classe in base al loro livello di apprendimento: a Treviso abbiamo svariati livelli. Ci restano dai tre ai sei mesi, a discrezione degli insegnanti, poi vengono iscritti ad un centro di formazione per adulti. Questo alla fine rilascerà un certificato di italiano A2, obbligatorio per l’iscrizione al corso di sicurezza sul lavoro.
In che modo i ragazzi vengono preparati a lavorare?
Abbiamo accordi con vari centri di formazione: a Treviso, per esempio, con scuole professionali e licei, dove abbiamo ragazzi iscritti. Cerchiamo di assecondare chi ha ambizioni di studiare o imparare un mestiere: abbiamo anche un giovane che ha vinto un bootcamp a Ca’ Foscari, per dire… Parliamo di ragazzi di culture e capacità diversissime, dunque non si possono fare programmi generali. Inoltre organizziamo dei corsi interni: alla Zanusso si può diventare pittore, muratore, cartongessista, e incentiviamo moltissimo le arti, con un insegnante di disegno nostro dipendente. Vogliamo insomma che tengano allenata la mente, il fisico, ma anche l’attività ricreativa e intellettuale: a Fratta di Oderzo abbiamo un ragazzo che suona in chiesa e che sta cercando un corso di musica con l’aiuto del parroco, mentre a Treviso realizzato spettacoli teatrali con la compagnia Tremilioni di Conegliano, uno dei quali inserito nel programma di CartaCarbone festival.
Dopo quasi un anno è tempo di bilanci.
La caserma è aperta da aprile 2016. Noi siamo lì dal 20 gennaio 2017 e il 31 dicembre scadrà il nostro affidamento, in base all’appalto pubblico che abbiamo vinto. Il nostro lavoro l’abbiamo fatto: vada su Google Earth e guardi com’era la caserma prima e com’è ora: sembrava fosse in mezzo alla foresta, mentre oggi è un centro pulito e dignitoso. Inoltre nei cinque mesi prima del nostro arrivo i ragazzi inscenarono proteste un paio di volte; dopo il nostro arrivo, più nulla: questo è un messaggio di tranquillità che voglio lanciare alla popolazione. Non stiamo incentivando alcuna invasione, ma lavoriamo per fare in modo che delle persone, che sarebbero rimaste volentieri a casa loro, si formino, si integrino, capiscano le nostre regole: voglio che si ricordino di noi come le ultime persone che le hanno aiutate, perché poi dovranno iniziare una vita da soli. Ma se non preparano con noi una “valigia” che gli permetta di affrontare questa vita, questa valigia rimarrà vuota.
Antonio Silvio Calò [il cittadino di Povegliano che ospita a casa propria cinque rifugiati, n.d.r.] sostiene che i migranti, una volta ottenuto lo status di rifugiato, vengano abbandonati a se stessi…
Il professor Calò ha perfettamente ragione! Le cosiddette seconda e terza accoglienza oggi sono il punto debole del sistema: una volta ottenuto o meno lo status di rifugiato, che succede? Per questo tra i nostri obbiettivi c’è anche quello di far conoscere questi ragazzi alla popolazione tramite i nostri progetti, fare in modo che possano crearsi delle opportunità per il dopo. Per questo motivo la collaborazione con la società è fondamentale.
A questo proposito, come vi state muovendo?
La caserma Zanusso, proprio come la Serena, ora ha una squadra di calcio iscritta alla lega amatori. La lega di Treviso però, che va elogiata per la grande disponibilità: purtroppo quella di Oderzo non l’ha accettata avendo già un numero di squadre pari in campionato. I ragazzi si allenano d’inverno nel nostro piazzale, mentre nel resto dell’anno al Patronato Turroni; le partite le giocano a Fratta. Per questo, e per altro, va elogiata anche la diocesi di Vittorio Veneto: don Pierpaolo e don Lorenzo sono in continuo contatto con noi, così come padre Massimo del Brandolini, e potrei continuare coi nomi di altri parroci…
«Non dimentichiamo che in questo primo anno di gestione abbiamo anche dovuto sistemare la situazione pregressa – aggiunge Sara Salin, portavoce della cooperativa. – A Treviso ci sono più opportunità perché lì abbiamo due anni di lavoro in più alle spalle. Ma per dire, un progetto sulle ninne nanne del mondo scritte e illustrate sugli autobus di Treviso ha coinvolto una scuola primaria di Vittorio Veneto e proprio la caserma Zanusso, dove c’è un gruppo con una propensione maggiore alla pittura rispetto al capoluogo, dove preferiscono il teatro. Di progetti se ne possono avviare tantissimi: a Treviso i richiedenti asilo fanno servizio di apertura e chiusura in un parco giochi, hanno restaurato una ex scuola, hanno ripulito il Sile; ogni giorno una cinquantina di loro esce dalla caserma e ripulisce le strade. Sono tutti benefici per la comunità, e un modo per questi ragazzi per sentirsi utili e importanti. Dopo tre anni, ora sono le associazioni di volontariato che vengono da noi a chiedere aiuto: la città si è accora di loro».
A Oderzo invece per ora se ne sono accorte più che altro le parrocchie – ammette Marinese – ma a prescindere se ci saremo ancora noi o meno nei prossimi anni se ne accorgeranno anche gli altri. Bisogna avere pazienza, sensibilizzare e non demordere. Non vogliamo accelerare i tempi, ma Oderzo è una città viva e di cultura e siamo sicuri che presto sarà pronta a questi tipi di collaborazione.
In questo momento però il mondo delle cooperative non gode di una buona reputazione…
Operiamo in un settore che purtroppo è rimasto invischiato in Mafia Capitale, mentre qui vicino per esempio c’è stato il caso del CARA di Cona, dove lavora la cooperativa che aveva in gestione la caserma Zanusso l’anno scorso… Come in tutti i settori, anche nel nostro ci sono operatori più sani e meno sani, non bisogna fare di ogni erba un fascio.
Qualcuno dovrebbe senz’altro cambiare mestiere, anche perché chi non è onesto e professionale danneggia tutti: potete immaginare cosa può uscire da un centro dove i richiedenti asilo rimangono al chiuso, non studiano italiano, non sanno cosa sia un corso professionale. In Italia siamo quattromila soggetti a fare accoglienza: ce ne sono di buoni e di ottimi, e spero siano la maggioranza. A Oderzo i problemi logistici della gestione precedente hanno creato un danno di immagine; gli ospiti hanno protestato, ma non dimentichiamo che se è frequente litigare in un condominio, figuriamoci in una comunità con centinaia di persone di nazionalità diverse.
A proposito di immagine: che ruolo hanno avuto in questo senso i media e internet?
Guardi: dieci mesi fa ho cambiato il cancello di ingresso della caserma, e ancora su internet e sui giornali continua a comparire la stessa foto del vecchio cancello col sindaco davanti. Sul nuovo cancello ho voluto lasciare una feritoia con un vetro: chiunque può guardarci dentro, ma è come se nessuno l’avesse mai fatto. Poi, per partecipare a “Balcone fiorito”, abbiamo ulteriormente abbellito l’entrata, ma sui giornali è finita una foto di un balcone posteriore…
Nel nostro territorio, pur essendoci giornalisti che lavorano bene, nessuno ci ha mai contattato per chiederci qualcosa di specifico sulla Zanusso. Capisco che l’albero che cade faccia più rumore della foresta che cresce, ma a me dispiace che se i nostri ragazzi si prendono a schiaffi finiscono in prima pagina, mentre se vanno a trovare papa Francesco finiscono a pagina 9. E non per un incontro fugace: sono stati fatti accomodare in prima fila, il Santo Padre si è fermato a parlare con loro e ha guardato i regali che gli avevano preparato. Non dico tutto questo per far polemica: voglio che queste mie parole siano di apertura.
A Oderzo, se qualcuno si mette alle sei-sette di mattina davanti al nostro cancello vedrà cento persone uscire con un permesso speciale per andare al lavoro [gli altri possono uscire dalle 8 alle 20, n.d.r.], in aziende del territorio. Molto di più, in percentuale, che a Treviso: vorrei che si sapesse.
Se qualcuno ha bisogno della vostra manodopera, cosa può fare?
I ragazzi sono normalmente iscritti al centro per l’impiego: se qualcuno vuol farli lavorare, lì troverà i curricola dei nostri ragazzi. Per opere di volontariato invece è più complicato, perché occorre presentare un progetto.

L’Azione, domenica 17 dicembre 2017

 

La provenienza dei richiedenti asilo
Le provenienze dei richiedenti asilo ricalcano in percentuale quelle degli arrivi:
• 30% circa Nigeria
• 30% Africa sub sahariana di area francofona
• 40% Pakistan e Afghanistan
• In parte sono arrivati dal sud Italia, altri dalla “rotta balcanica” prima che venisse chiusa.
• Alcuni sono “dublinanti”, termine che indica coloro che per in base ai trattati di Dublino hanno fatto richiesta di asilo in altri paesi, tipo Grecia o Croazia, che sono stati giudicati incapaci di accogliere tali richieste e che per questo stanno in una specie di limbo a livello giuridico.

B.L., da quattro anni in viaggio

Piavon_chiesa_parrocchiale

Oggi su L’Azione la storia della vita di uno dei profughi che accogliamo a Piavon

Pubblicato da Caritas Vittorio Veneto su Giovedì 18 febbraio 2016

La Curia diocesana [di Vittorio Veneto] è uno dei pochi soggetti che nella nostra zona ha risposto all’appello del Prefetto a mettere a disposizione degli alloggi per fronteggiare l’emergenza migratoria che in questi mesi sta interessando Europa e bacino del Mediterraneo.
Per questo motivo, grazie alla collaborazione tra Caritas diocesana e Prefettura, da lunedì 1° febbraio dodici ragazzi africani alloggiano in due appartamenti di proprietà dell’Istituto di Sostentamento del Clero a Piavon.
I dodici provengono dalla Guinea Conakry, una nazione che molti di noi, pur essendo andati a scuola, faticherebbero a trovare sulla cartina. Lì invece l’istruzione è un lusso per pochi, così come il lavoro e la salute. Cambiare le cose nella situazione attuale è improponibile, per cui andarsene diventa inevitabile per un giovane intraprendente, sempre che possieda una somma sufficiente per poterselo permettere.
Le storie di questi dodici ragazzi di Piavon sono tutto sommato simili: noi vi raccontiamo quella di B. L., un giovane come tanti.
Non avere accesso all’istruzione e ai media porta anche a credere a chi ti promette di portarti, e per giunta via terra, a lavorare in una ricca nazione chiamata Spagna. Nel 2012 B. L. ha ventidue anni quando lascia il suo villaggio con un cellulare e un po’ di soldi in tasca per intraprendere un viaggio verso il nord del mondo. Dopo un mese, e dopo aver attraversato il deserto del Sahara, arriva in Libia.
Muammar Gheddafi, nonostante i suoi metodi dittatoriali, reclamava il rispetto per tutti gli africani, da grande sostenitore dell’Unione Africana qual era: ma quando B. L. arriva, Gheddafi è morto, il paese è nel caos e gli immigrati neri vengono guardati con diffidenza dagli arabi. Ben presto così B. L. si ritrova in prigione, dove rimane due anni, fin quando i carcerieri, più che altro per pietà, lo liberano.
B. L. lavora per un anno in loco come idraulico ma la situazione del paese peggiora ulteriormente: per un nero l’alternativa è farsi ammazzare per strada o cedere alle lusinghe e ai soldi dei terroristi di Boko Haram, per ritrovarsi a fare il kamikaze. Quindi contatta degli scafisti del luogo che gli propongono di portarlo in Europa in nave pagando circa 500 euro.
Da lì in poi è una strada senza ritorno: alla partenza, quando i migranti capiscono che non esiste nessuna nave, e che il mezzo di trasporto per l’intera traversata sarà un semplice gommone, chi si rifiuta di salire viene preso a bastonate dagli scafisti e caricato a forza. Gli stessi sequestrano il denaro rimasto nelle tasche dei passeggeri lasciandogli solo il telefonino, e distruggendogli i documenti per evitare il rischio che qualcuno possa risalire a loro.
La pericolosa traversata del Mediterraneo termina a Lampedusa. Dalla Sicilia, il ragazzo e gli altri suoi conterranei sono stati trasferiti nella casa di Piavon, l’ultima tappa finora di quasi quattro anni di calvario.
Una storia come questa dovrebbe far capire come di fronte ad un problema di tali dimensioni non esistono soluzioni semplici e veloci. E che non è opportuno fare distinzioni tra profughi di guerra e migranti economici, magari per accogliere i primi e respingere i secondi. E, infine, che aiutare questa gente a casa loro come chiedono in tanti potrebbe essere una buona idea solo se fosse praticabile: non lo è di certo né in Libia né Siria, ma non lo è nemmeno in gran parte del continente africano, dove la corruzione delle classi dirigenti e i conflitti di natura etnica o religiosa il più delle volte sono alimentati dagli interessi di noi occidentali. Non dimentichiamolo.

LA SITUAZIONE A PIAVON
Nei due appartamenti di Piavon sono attualmente alloggiati dodici ospiti, di età compresa tra i 35 e i 17 anni: questi ultimi probabilmente ne hanno qualcuno in più, essendo stati registrati tardivamente all’anagrafe dalle famiglie, impossibilitate a pagare le tasse per i figli.
Hanno l’obbligo del coprifuoco dalle ore 20 alle 8 del mattino, orari in cui le forze dell’ordine passano per l’appello. Dal 22 febbraio dovranno frequentare dei corsi scolastici presso le scuole medie di Oderzo in base alla loro istruzione. Per il resto sono tenuti al rispetto reciproco, a tenere gli appartamenti puliti e in ordine, a mantenere un profilo basso e a comportarsi bene: sono infatti al corrente che chi non rispetta le regole perde automaticamente i diritti di rifugiato, oltre a danneggiare l’intero gruppo. Presto potranno, su autorizzazione della Prefettura, fare volontariato in base alle richieste che perverranno dal territorio. Parlano francese e sono seguiti da una mediatrice culturale insieme ad altre figure professionali.
La Caritas ha precedentemente incontrato il consiglio pastorale della parrocchia ottenendone la disponibilità all’accoglienza.

L’Azione, domenica 21 febbraio 2016

Alle falde del Kilimangiaro

Ah, forse vi può interessare il fatto che sono appena tornato dal Burundi. Sto scrivendo parecchio su questa esperienza e sistemando vari album fotografici. Prima o poi scriverò qualcosa pure qui, nel frattempo Twitter può aiutarci a capire la percezione che l’italiano medio ha di questo paese:

Dulcis in fundo, una chicca: