(A)normalità, un concorso fotografico e letterario

Fucina n.4, associazione culturale attiva nell’opitergino-mottense, ha lanciato un concorso letterario e fotografico. La pandemia è entrata a gamba tesa nella vita di tutti, per cui, come dice la presidente Caterina Furlan, “vogliamo cogliere l’occasione fornita da questo nuovo tempo per raccogliere una testimonianza collettiva di questo 2020, e chiedere ai partecipanti di raccontare la loro nuova normalità”.

Ecco il perché di “(A)normalità”, il nome scelto per battezzare l’iniziativa. Come sono cambiate le nostre vite da dieci mesi a questa parte? Quali sono le caratteristiche della nostra quotidianità che prima di allora sarebbero sembrate strane, o meglio, anormali, mentre oggi sono normali? Chi vuole partecipare dovrà rispondere a queste domande tramite un testo (in prosa o in poesia) oppure con una fotografia e inviarla all’associazione entro il 28 febbraio 2021.

A scegliere i vincitori delle due categorie saranno due giurie di qualità. La giuria letteraria sarà composta da Fabio Franzin, noto poeta dialettale che scrive in lingua dell’opitergino-mottense; Francesco Maino, scrittore di San Donà di Piave vincitore del Premio Calvino 2013 con Cartongesso (Einaudi) e infine il professor Giampietro Fattorello, docente dell’ISISS “Antonio Scarpa” di Motta di Livenza. Nella giuria che sceglierà la miglior foto ci saranno invece Juan Carlos Marzi, fotografo freelance vittoriese attivo nel campo della fotografia sociale e del reportage, l’opitergina Silvia Longhi, fotografa freelance che si occupa di fotografia commerciale e reportage, e Lavinia Longhetto, artista e fotografa di Motta di Livenza.

I vincitori riceveranno un buono del valore di cento euro spendibile rispettivamente alla libreria Montan e allo studio fotografico Beniamino Furlan di Motta di Livenza; un premio di consolazione sarà assegnato anche alla fotografia che otterrà più “like” nelle pagine social dell’associazione, che si invita a visitare per leggere il regolamento completo del concorso.

L’Azione, domenica 20 dicembre 2020

The Economy of Francesco

Lo scorso gennaio, su iniziativa del centro culturale Humanitas, il professor Stefano Zamagni venne al Toniolo a Conegliano per una serata sul tema dell’economia civile: nell’occasione disse che ormai da mesi circa duemila giovani economisti e imprenditori di tutto il mondo si stavano incontrando, dal vivo o da remoto, per discutere di nuovi modelli di economia basati su valori francescani: tutto questo su invito di papa Francesco, il quale avrebbe poi incontrato questi giovani a fine marzo ad Assisi per The Economy of Francesco, un fitto fine settimana dove i partecipanti si sarebbero prima confrontati con noti attivisti, economisti, filosofi e docenti universitari di tante provenienze sensibili a questi temi.

All’epoca nessuno in Italia sapeva che già stava girando il virus di quella nuova influenza che da lì a poco sarebbe entrata a gamba tesa sulle vite di gran parte della popolazione mondiale, costringendo gli organizzatori del convegno prima a rinviarlo di otto mesi e poi, visto il perdurare dell’emergenza, a trasformarlo in un grande evento online al termine di un cammino di preparazione più lungo del previsto.

Il “Francesco” del titolo dell’evento è ovviamente il Poverello di Assisi il quale, dopo aver intrapreso il cammino verso la santità, non perse la mentalità imprenditoriale che lo caratterizzava prima della conversione, passando però da una logica della donazione a una logica del dono: questo gli permise di creare un modello economico basato sulla gratuità che verrà ulteriormente sviluppato dopo la sua morte da grandi francescani come san Bonaventura da Bagnoregio, precursore del concetto di sussidiarietà, e il beato Bernardino da Feltre, inventore di quei monti di pietà che tanta gente salvarono dalle catene dell’usura.

L’apporto del Francescanesimo alla storia dell’economia è decisamente sottovalutato; i duemila partecipanti al convegno, tutti di età massima 35 anni, cercheranno di fare tesoro di tutto questo e di contribuire ad un grande cambiamento globale che, a causa della pandemia in corso, abbiamo scoperto essere quanto mai urgente e necessario.

Tra i relatori del convegno più noti ci sono il bengalese Muhammad Yunus, premio Nobel per la Pace 2006; l’attivista indiana Vandana Shiva, il fondatore di Slow Food Carlo Petrini, il saggista americano Jeffrey Sachs; a dirigere il tutto sarà Luigino Bruni, economista docente alla LUMSA di Roma nonché biblista e firma del quotidiano Avvenire.

Gli appuntamenti si terranno nei pomeriggi del 19, 20 e 21 novembre e sarà possibile seguirli comodamente da casa, in diretta o in differita, visitando il sito internet francescoeconomy.org/it o le pagine dell’evento presenti sui principali social network. Si prevede la copertura dell’evento anche da parte dell’emittente TV2000.

L’Azione, domenica 22 novembre 2020

“Bisognava riaprire le scuole”

Al Brandolini-Rota di Oderzo come sono stati vissuti e come si continuano a vivere i mesi della pandemia? Abbiamo chiesto al direttore, padre Massimo Rocchi dei Giuseppini del Murialdo, di raccontarcelo.

Padre Massimo. com’è finito questo strano anno scolastico in collegio?
«Dal 10 al 26 giugno abbiamo organizzato l’ultimo giorno di scuola per tutte le classi della scuola primaria, delle medie e del liceo. Una mattinata per ogni classe, con un insegnante ogni 7-10 alunni come prescrivono i regolamenti; poi abbiamo allestito una zona triage per il controllo della temperatura, allestito i tavoli con il gel igienizzante, eccetera.
Abbiamo fatto molte attività all’aperto, soprattutto di gioco e di dialogo. Era facoltativo: hanno partecipato dalla metà ai due terzi degli alunni, anche perché alcuni erano già in vacanza.
Sabato 27, dopo gli orari dell’esame di maturità e i colloqui online con le terze medie, abbiamo concluso le attività scolastiche.
Devo dire che i ragazzi avevano tanto bisogno di rivedersi».

Avete potuto farlo perché avete gli spazi adeguati…
«Secondo me ogni scuola poteva farlo. Certo, non tutte le classi insieme: un giorno alla settimana a rotazione. Credo sia stato un errore obbligare le paritarie a non fare nulla solo perché nelle statali non si sono organizzati… Non è così che si formano le persone: come possiamo educarle alla legalità se poi non possiamo insegnargli le regole? L’abbiamo fatto a distanza, ma gli studenti in classe avrebbero imparato meglio, perché l’esortazione non basta, occorre anche la disciplina, la metodologia di comportamento nella pratica, e gli insegnanti gliel’avrebbero data. Invece non l’ha fatto nessuno, e ora vediamo i ragazzini in giro per Oderzo vicini e senza mascherina».

Ed ora?
«Da alcuni giorni abbiamo iniziato Brandolandia, il nostro Grest: solo al mattino, solo per le classi elementari. Una settantina di partecipanti divisi in gruppi di sette con un maggiorenne e un animatore; probabilmente termineremo il 31 luglio. E siccome noi Giuseppini non siamo eterni, la gestione è affidata all’associazione di promozione sociale “Murialdo Oderzo” che abbiamo creato tre anni fa per portare avanti le attività extrascolastiche. Dal 25 aprile al 16 giugno abbiamo anche pubblicato online dei video di animazione, i “Murialdo Time”, i quali hanno avuto un successo oltre le nostre aspettative, con metà visualizzazioni al di fuori dell’Opitergino, anche all’estero».

Come fate con i campi estivi?
«So che Azione Cattolica e Agesci non li fanno, e posso capirlo viste le questioni di responsabilità. Noi a Caviola di Falcade abbiamo un campo di nostra proprietà con strutture fisse e delle tende: dopo aver studiato bene le direttive regionali abbiamo deciso di fare il campo estivo lo stesso con quasi una cinquantina di ragazzi. Meno della metà della capienza totale, perché in una tenda da cinque posti ne stanno due, per tenere i letti a distanza».

Qual è stata la reazione delle famiglie?
«I genitori ci hanno ringraziato a lungo visto che, tra centri estivi parrocchiali e non che sono stati annullati, siamo rimasti tra i pochi a fare qualcosa. Abbiamo aperto le iscrizioni e raggiunto rapidamente il tutto esaurito solo con i nostri, dei quali conosciamo bene le provenienze, e questa è una cosa che ci garantisce di più».

Cosa ne pensa delle regole anti-Covid?
«A maggio, quando hanno prolungato le disposizioni, mi sono molto arrabbiato. A marzo e aprile hanno avuto assolutamente il loro senso; a maggio, così come gradualmente le aziende hanno ripreso la loro vita normale, bisognava farlo anche con i ragazzi che sono stati molto penalizzati da questa situazione.
Io sono bergamasco, e mio fratello mi manda tutti i giorni i dati della Lombardia: a inizio giugno, mentre da loro avevano duecento casi al giorno, da noi eravamo scesi sotto i dieci, quindi con la necessaria prudenza non ci sarebbero stati problemi».

Diciamo che è difficile fare differenze…
«Ma perché allora noi e le parrocchie dobbiamo seguire delle regole ferree mentre al mare tutti fanno quello che vogliono? Perché lì non si possono controllare tutti. Ma allora di cosa stiamo parlando?
La gente ha bisogno di uscire: un nostro alunno che sta facendo la stagione a Jesolo mi ha detto che lo scorso fine settimana hanno fatto l’incasso di Ferragosto. Aggiungiamo che molti hanno consumato le ferie in primavera, e quindi ora andranno al mare quando possono, cioè il sabato e la domenica: era meglio quindi aprire prima, fare le cose con gradualità ed evitare questi pienoni che non ci sono mai stati».

Ma questa apprensione secondo lei è legittima?
«Basta guardare i dati oggettivi e non i titoli dei giornali, ovvero confrontare i morti dell’anno scorso e quelli di quest’anno nelle varie regioni. A parte nel bergamasco, dopo Pasqua non aveva più molto senso tenere tutto chiuso. E adesso chi misura i danni psicologici e relazionali causati dalla chiusura? E quelli che perderanno il lavoro dopo il 31 luglio, cosa faranno? Andrà tutta riscritta la storia di questi mesi.
Bisognava aprire prima, con gradualità e regole certe, certezze che nel mondo nella scuola non ci sono state».

L’Azione, domenica 19 luglio 2020

Né ricchi, né privi di memoria

Il 28 marzo 1997 nel cielo splendeva la cometa di Hale-Bopp, la quale fu probabilmente una delle ultime cose che videro ottanta albanesi prima di annegare nelle acque del canale di Otranto. A bordo della Katër i Radës, una vecchia nave di fabbricazione russa, cercavano di raggiungere le coste italiane, ma furono speronati da una motovedetta della Marina italiana.

Il 28 marzo 2020 il governo albanese ha inviato in Italia un team di medici e infermieri per aiutare il nostro paese ad affrontare la pandemia di Covid-19. “Non siamo ricchi ma nemmeno privi di memoria”, ha dichiarato il primo ministro albanese Edi Rama.

Una frase che risulta ancora più significativa se si pensa a questa coincidenza (forse) casuale, e che rende altrettanto significativo questo gesto di solidarietà da parte di questo piccolo popolo, nostro vicino di casa, con il quale spesso abbiamo avuto un rapporto tutt’altro che idilliaco.

Gel, mascherine e fake news

«Siamo pieni di lavoro e la situazione non è semplice». Se la situazione attuale non è semplice per nessuno, ora paradossalmente c’è chi non lavora più e chi invece lavora troppo: tra questi ultimi rientra decisamente Giuseppe Marson, 37 anni, residente a Caneva ma originario di Mansuè dove esercita la professione di farmacista.

Come vi state adattando a questa circostanza inedita?
All’inizio della scorsa settimana abbiamo attivato un servizio gratuito di consegna a domicilio dei farmaci, rispettando le norme di sicurezza, per il nostro comune e la frazione di Navolè di Gorgo al Monticano, da dove tradizionalmente provengono vari nostri utenti. Questo perché come operatori sanitari ci stiamo attivando per fare in modo che la gente rimanga effettivamente a casa, visto che questa è l’unica misura efficace per il contenimento dell’epidemia: è un dato di fatto.

Quali sono gli obbiettivi di questo servizio?
Questa iniziativa serve a salvaguardare quella parte di popolazione fragile, come gli over 65 e gli affetti da altre patologie, che potrebbe essere più soggetta alle complicanze del Coronavirus. Anche perché in farmacia c’è comunque un viavai di persone che, evidentemente, bene non stanno.
Soprattutto per noi è un modo per prenderci cura della popolazione, cosa insita nella nostra cultura e certamente in controtendenza rispetto a un Boris Johnson che dichiara “preparatevi a perdere i vostri cari”…

Nel frattempo altre farmacie hanno attuato servizi simili…
Sì, qualche giorno dopo, grazie ad una convenzione tra l’associazione di categoria e la Croce Rossa italiana: è attivo un numero verde, e chiamandolo si viene messi in contatto con le farmacie che hanno aderito.

Che reazione avete avuto in paese?
È stato bello vedere come vari giovani di Mansuè si siano resi disponibili a darci una mano ma per il momento, visto che i numeri sono ancora limitati, preferiamo gestire la consegna io e mia sorella Viviana. Siamo entrambi farmacisti e in sede di consegna potrebbero esserci richieste sull’utilizzo del farmaco.

Di che numeri stiamo parlando?
Nei primi tre giorni abbiamo avuto in media otto consegne giornaliere. I destinatari sono persone che per l’età o per le patologie che presentano hanno davvero bisogno di questo servizio e che infatti hanno apprezzato. Hanno apprezzato anche la possibilità di pagare con bancomat, segno che anche gli ottantenni iniziano ad avere una certa dimestichezza con i pagamenti digitali…

Sulla vostra pagina Facebook ho visto un post in rumeno…
Che il messaggio di rimanere a casa passi forte e chiaro è una nostra priorità, e visto che qui il 18,9% della popolazione ha origine straniera abbiamo pensato in particolare alla comunità rumena, la più numerosa. Una nostra cliente ha quindi tradotto per loro il post che abbiamo messo nei social network: vogliamo essere il più inclusivi possibili e sappiamo che i più anziani tra loro faticano ancora a comprendere la nostra lingua.

Ma gli anziani poi usano internet?
Il target della nostra comunicazione, le persone anziane, in effetti non hanno accesso a internet, in genere; abbiamo quindi sollecitato un passaparola che dal virtuale passi al reale, ovvero abbiamo chiesto a chi ha letto il testo che spiegava l’iniziativa di avvisare i conoscenti anziani con una telefonata o una citofonata.

Quali sono le principali richieste che ricevete?
Le richieste che riceviamo continuamente riguardano il gel igienizzante e le mascherine. Poi ci hanno chiesto informazioni sulla fake news che girava sui telefoni della vitamina C e dell’acido ascorbico che, se iniettate, fermerebbero la malattia… per cui tanti sono venuti a fare incetta di vitamina C e abbiamo cercato, a nostro discapito, di fare informazione medico-scientifica corretta dicendo che non ci sono evidenze scientifiche che attestino questa teoria. Ci siamo trovati a gestire queste situazioni dovute dall’isteria, dall’incertezza sul futuro: già la gente si chiede cosa succederà dopo, nel tessuto economico e sociale del territorio.

L’Azione, domenica 22 marzo 2020

«Siamo custodi l’uno dell’altro»

Fonte immagine: La vita del Popolo

Giulia Durante è una giovane donna di 27 anni che vive a Treviso e lavora come infermiera all’ospedale Ca’ Foncello nel reparto di ematologia.

Com’è cambiata la situazione in ospedale?
Gira meno gente nei corridoi; inoltre il Pronto Soccorso è deserto, a dimostrazione di quanto è stato osservato da tanti, ovvero che lì molti accessi erano superflui. C’è gente che ha bussato alla porta del nostro reparto per chiedere mascherine… ne avevamo messe a disposizione per i visitatori quando potevano entrare e sono sparite tutte, per cui ora dobbiamo tenerle sotto chiave: tieni conto che i nostri pazienti, in quanto immunodepressi, sarebbero tra i primi ad averne bisogno. Poi è stata chiusa l’unità a gestione infermieristica per dirottarne il personale altrove e cambiata la gestione delle guardie mediche notturne.

E come sono cambiati i rapporti tra colleghi e con i familiari dei pazienti?
Coi familiari ci siamo trovati a dover educarli ad una corretta informazione rispetto ai rischi dell’epidemia e ridurre le visite ad un parente al giorno, possibilmente sempre lo stesso. Coi colleghi invece si è rafforzato lo spirito di squadra, anche perché hanno bloccato le ferie di tutti chiedendo la disponibilità di coprire i turni dove c’è bisogno. Respirare con la mascherina ed essere rivestiti di plastica non è una sensazione gradevole, senza contare che ti costringe a trovare altri modi per stare vicini ai pazienti; nel nostro reparto comunque siamo già abituati a questa situazione perché tutto l’anno siamo vestiti con guanti, mascherine e a volte sovra-camice, visto che i nostri pazienti sono quasi tutti senza globuli bianchi e quindi più esposti alle infezioni.

Riconosci l’ospedale nell’immagine che ne danno i quotidiani?
Ogni volta che esco butto un occhi ai cartelloni dell’edicola; percepisco un’immagine apocalittica che istiga al panico e che personalmente non condivido, anche perché il dottor Benazzi [il direttore dell’ospedale] ha dichiarato pochi giorni fa che non ci sono casi di decessi DA coronavirus ma decessi di pazienti CON pluripatologie complicate a causa del virus. Di fatto a Treviso non mi risulta che ci siano persone morte solo a causa dell’infezione.

Amici e conoscenti come ti vedono in questo momento?
C’è chi non ti vuole vedere perché fai un lavoro ad alto rischio, chi non senti da decenni e si ricorda che fai l’infermiera e quindi cerca notizie in diretta; per altri infine sei un eroe. Poi ci sono io, che non “faccio” l’infermiera ma “sono” infermiera. Noi che facciamo questo mestiere siamo chiamati ad essere custodi l’uno dell’altro, se non come cristiani, in virtù della nostra umanità. Certo trovo che io lo faccia in una forma privilegiata, ma penso che ognuno sia chiamato a rispondere a modo suo.
Questa emergenza sta chiedendo ai miei colleghi sacrifici da aggiungere ai sacrifici di quella che è una vera e propria scelta di vita: essere a disposizione dell’ospedale per la copertura di tutti i turni quando è necessario a discapito di riposo e famiglia; rinunciare ai confort del proprio reparto e andare dove c’è bisogno, prendersi cura anche dei tuoi stessi colleghi; indossare un’opprimente armatura di plastica; andare a casa con la preoccupazione di poter essere veicolo per familiari fragili; sommiamo festività, notti, rischio chimico-biologico, e tutto questo per uno stipendio mediamente basso.

Come vedi questo momento alla luce della tua fede cristiana?
Questi sacrifici ci riportano al perché, o meglio, al per Chi siamo infermieri e ci fa bene ricordarcelo. Personalmente è una scelta che mi ha salvato e ogni giorno mi salva dalla paura e dall’egoismo: per me è stata una scuola di vita nella sofferenza toccata con mano e nei compagni di studio di quegli anni, che mi ha naturalmente incoraggiato a coltivare ed approfondire un cammino di fede in cui ho trovato la Verità di creatura desiderata e amata da un Dio Padre in cui tutte le mie aspettative d’amore e la mia domande di vita non saranno mai deluse.

L’Azione, domenica 14 marzo 2020