Né ricchi, né privi di memoria

Il 28 marzo 1997 nel cielo splendeva la cometa di Hale-Bopp, la quale fu probabilmente una delle ultime cose che videro ottanta albanesi prima di annegare nelle acque del canale di Otranto. A bordo della Katër i Radës, una vecchia nave di fabbricazione russa, cercavano di raggiungere le coste italiane, ma furono speronati da una motovedetta della Marina italiana.

Il 28 marzo 2020 il governo albanese ha inviato in Italia un team di medici e infermieri per aiutare il nostro paese ad affrontare la pandemia di Covid-19. “Non siamo ricchi ma nemmeno privi di memoria”, ha dichiarato il primo ministro albanese Edi Rama.

Una frase che risulta ancora più significativa se si pensa a questa coincidenza (forse) casuale, e che rende altrettanto significativo questo gesto di solidarietà da parte di questo piccolo popolo, nostro vicino di casa, con il quale spesso abbiamo avuto un rapporto tutt’altro che idilliaco.

Gel, mascherine e fake news

«Siamo pieni di lavoro e la situazione non è semplice». Se la situazione attuale non è semplice per nessuno, ora paradossalmente c’è chi non lavora più e chi invece lavora troppo: tra questi ultimi rientra decisamente Giuseppe Marson, 37 anni, residente a Caneva ma originario di Mansuè dove esercita la professione di farmacista.

Come vi state adattando a questa circostanza inedita?
All’inizio della scorsa settimana abbiamo attivato un servizio gratuito di consegna a domicilio dei farmaci, rispettando le norme di sicurezza, per il nostro comune e la frazione di Navolè di Gorgo al Monticano, da dove tradizionalmente provengono vari nostri utenti. Questo perché come operatori sanitari ci stiamo attivando per fare in modo che la gente rimanga effettivamente a casa, visto che questa è l’unica misura efficace per il contenimento dell’epidemia: è un dato di fatto.

Quali sono gli obbiettivi di questo servizio?
Questa iniziativa serve a salvaguardare quella parte di popolazione fragile, come gli over 65 e gli affetti da altre patologie, che potrebbe essere più soggetta alle complicanze del Coronavirus. Anche perché in farmacia c’è comunque un viavai di persone che, evidentemente, bene non stanno.
Soprattutto per noi è un modo per prenderci cura della popolazione, cosa insita nella nostra cultura e certamente in controtendenza rispetto a un Boris Johnson che dichiara “preparatevi a perdere i vostri cari”…

Nel frattempo altre farmacie hanno attuato servizi simili…
Sì, qualche giorno dopo, grazie ad una convenzione tra l’associazione di categoria e la Croce Rossa italiana: è attivo un numero verde, e chiamandolo si viene messi in contatto con le farmacie che hanno aderito.

Che reazione avete avuto in paese?
È stato bello vedere come vari giovani di Mansuè si siano resi disponibili a darci una mano ma per il momento, visto che i numeri sono ancora limitati, preferiamo gestire la consegna io e mia sorella Viviana. Siamo entrambi farmacisti e in sede di consegna potrebbero esserci richieste sull’utilizzo del farmaco.

Di che numeri stiamo parlando?
Nei primi tre giorni abbiamo avuto in media otto consegne giornaliere. I destinatari sono persone che per l’età o per le patologie che presentano hanno davvero bisogno di questo servizio e che infatti hanno apprezzato. Hanno apprezzato anche la possibilità di pagare con bancomat, segno che anche gli ottantenni iniziano ad avere una certa dimestichezza con i pagamenti digitali…

Sulla vostra pagina Facebook ho visto un post in rumeno…
Che il messaggio di rimanere a casa passi forte e chiaro è una nostra priorità, e visto che qui il 18,9% della popolazione ha origine straniera abbiamo pensato in particolare alla comunità rumena, la più numerosa. Una nostra cliente ha quindi tradotto per loro il post che abbiamo messo nei social network: vogliamo essere il più inclusivi possibili e sappiamo che i più anziani tra loro faticano ancora a comprendere la nostra lingua.

Ma gli anziani poi usano internet?
Il target della nostra comunicazione, le persone anziane, in effetti non hanno accesso a internet, in genere; abbiamo quindi sollecitato un passaparola che dal virtuale passi al reale, ovvero abbiamo chiesto a chi ha letto il testo che spiegava l’iniziativa di avvisare i conoscenti anziani con una telefonata o una citofonata.

Quali sono le principali richieste che ricevete?
Le richieste che riceviamo continuamente riguardano il gel igienizzante e le mascherine. Poi ci hanno chiesto informazioni sulla fake news che girava sui telefoni della vitamina C e dell’acido ascorbico che, se iniettate, fermerebbero la malattia… per cui tanti sono venuti a fare incetta di vitamina C e abbiamo cercato, a nostro discapito, di fare informazione medico-scientifica corretta dicendo che non ci sono evidenze scientifiche che attestino questa teoria. Ci siamo trovati a gestire queste situazioni dovute dall’isteria, dall’incertezza sul futuro: già la gente si chiede cosa succederà dopo, nel tessuto economico e sociale del territorio.

L’Azione, domenica 22 marzo 2020

«Siamo custodi l’uno dell’altro»

Fonte immagine: La vita del Popolo

Giulia Durante è una giovane donna di 27 anni che vive a Treviso e lavora come infermiera all’ospedale Ca’ Foncello nel reparto di ematologia.

Com’è cambiata la situazione in ospedale?
Gira meno gente nei corridoi; inoltre il Pronto Soccorso è deserto, a dimostrazione di quanto è stato osservato da tanti, ovvero che lì molti accessi erano superflui. C’è gente che ha bussato alla porta del nostro reparto per chiedere mascherine… ne avevamo messe a disposizione per i visitatori quando potevano entrare e sono sparite tutte, per cui ora dobbiamo tenerle sotto chiave: tieni conto che i nostri pazienti, in quanto immunodepressi, sarebbero tra i primi ad averne bisogno. Poi è stata chiusa l’unità a gestione infermieristica per dirottarne il personale altrove e cambiata la gestione delle guardie mediche notturne.

E come sono cambiati i rapporti tra colleghi e con i familiari dei pazienti?
Coi familiari ci siamo trovati a dover educarli ad una corretta informazione rispetto ai rischi dell’epidemia e ridurre le visite ad un parente al giorno, possibilmente sempre lo stesso. Coi colleghi invece si è rafforzato lo spirito di squadra, anche perché hanno bloccato le ferie di tutti chiedendo la disponibilità di coprire i turni dove c’è bisogno. Respirare con la mascherina ed essere rivestiti di plastica non è una sensazione gradevole, senza contare che ti costringe a trovare altri modi per stare vicini ai pazienti; nel nostro reparto comunque siamo già abituati a questa situazione perché tutto l’anno siamo vestiti con guanti, mascherine e a volte sovra-camice, visto che i nostri pazienti sono quasi tutti senza globuli bianchi e quindi più esposti alle infezioni.

Riconosci l’ospedale nell’immagine che ne danno i quotidiani?
Ogni volta che esco butto un occhi ai cartelloni dell’edicola; percepisco un’immagine apocalittica che istiga al panico e che personalmente non condivido, anche perché il dottor Benazzi [il direttore dell’ospedale] ha dichiarato pochi giorni fa che non ci sono casi di decessi DA coronavirus ma decessi di pazienti CON pluripatologie complicate a causa del virus. Di fatto a Treviso non mi risulta che ci siano persone morte solo a causa dell’infezione.

Amici e conoscenti come ti vedono in questo momento?
C’è chi non ti vuole vedere perché fai un lavoro ad alto rischio, chi non senti da decenni e si ricorda che fai l’infermiera e quindi cerca notizie in diretta; per altri infine sei un eroe. Poi ci sono io, che non “faccio” l’infermiera ma “sono” infermiera. Noi che facciamo questo mestiere siamo chiamati ad essere custodi l’uno dell’altro, se non come cristiani, in virtù della nostra umanità. Certo trovo che io lo faccia in una forma privilegiata, ma penso che ognuno sia chiamato a rispondere a modo suo.
Questa emergenza sta chiedendo ai miei colleghi sacrifici da aggiungere ai sacrifici di quella che è una vera e propria scelta di vita: essere a disposizione dell’ospedale per la copertura di tutti i turni quando è necessario a discapito di riposo e famiglia; rinunciare ai confort del proprio reparto e andare dove c’è bisogno, prendersi cura anche dei tuoi stessi colleghi; indossare un’opprimente armatura di plastica; andare a casa con la preoccupazione di poter essere veicolo per familiari fragili; sommiamo festività, notti, rischio chimico-biologico, e tutto questo per uno stipendio mediamente basso.

Come vedi questo momento alla luce della tua fede cristiana?
Questi sacrifici ci riportano al perché, o meglio, al per Chi siamo infermieri e ci fa bene ricordarcelo. Personalmente è una scelta che mi ha salvato e ogni giorno mi salva dalla paura e dall’egoismo: per me è stata una scuola di vita nella sofferenza toccata con mano e nei compagni di studio di quegli anni, che mi ha naturalmente incoraggiato a coltivare ed approfondire un cammino di fede in cui ho trovato la Verità di creatura desiderata e amata da un Dio Padre in cui tutte le mie aspettative d’amore e la mia domande di vita non saranno mai deluse.

L’Azione, domenica 14 marzo 2020