Il declino dei Caminesi

Il professor Dario Canzian, iniziando la prefazione di questa poderosa ricerca d’archivio, afferma che studiare il declino di una famiglia può essere altrettanto interessante che studiarne la prosperità. Ecco quindi il motivo di questa pubblicazione sulla famiglia dei da Camino, che non indaga gli anni d’oro di Sofia di Colfosco o del “buon Gherardo” signore di Treviso, giusto per citare Dante. Lo storico vittoriese Massimo Della Giustina parte invece dal 1335, l’anno della morte di quel Rizzardo da Camino sepolto nella chiesa di Santa Giustina a Vittorio Veneto: solo qualche anno dopo infatti ci fu chi fece letteralmente carte false per togliere alla famiglia i principali feudi del Cenedese e consegnarli alla Repubblica di Venezia, un abuso giudiziario da cui i Caminesi non si riprenderanno più.

Le carte false riguardavano la presunta separazione del casato nei rami “di sopra” e “di sotto” del 1233, denominazioni queste largamente usate oggi ma che non trovano riscontro nelle fonti di prima mano se non in epoca successiva. Fonti che, come mostra l’autore, dimostrano semmai che una vera divisione all’interno della famiglia non ebbe luogo.

Analizzando i vari testamenti ed inventari catastali trascritti in appendice emerge il lacunoso ritratto di un’antica famiglia che, nel probabile tentativo estremo di non essere del tutto estromessa dalla politica veneta del tempo, nei novant’anni seguenti cercò di legarsi sempre più proprio a quella Venezia che lentamente la stava portando alla rovina, comprando casa in città, partecipando alla vita cittadina e riuscendo, pur essendo ormai lontana dai tempi migliori, a contrattare dei matrimoni di buon lignaggio con donne dell’aristocrazia locale.

Della Giustina inevitabilmente ha indagato pure sul presunto esilio in Germania della famiglia, dove si sarebbe rifugiata dopo aver perso nel 1422 la contea di Valmareno, l’ultima su cui ancora governava: pur dimostrando a riguardo una sana prudenza da storico, essendo questa storia supportata da fonti opinabili, l’autore è riuscito a provare la presenza di un discendente della famiglia in area tedesca nel Cinquecento. Questo grazie ad un documento scoperto alla British Library di Londra: una lettera datata 1519 in cui il marchese di Mantova raccomanda al re d’Inghilterra tale Giovanni Andrea da Camino, un esperto soldato che chiedeva di entrare nell’esercito inglese.

Tenendo conto che i principali studi sul casato, per quanto validi, sono ormai assai datati, risulta chiaro che i Caminesi, pur rappresentando uno dei casati più nobili del nord Italia, e pur avendo guadagnato grazie a Dante un pizzico di immortalità, non hanno ancora attirato dalla storiografia contemporanea l’attenzione che meritano. L’auspicio è che questa ricerca, e magari pure il settecentenario dantesco, contribuiscano a colmare presto questo vuoto.

Massimo Della Giustina
Gli ultimi Caminesi. Genealogia, storia e documenti dei Conti di Ceneda dopo il 1335
Ateneo di Treviso
Crocetta del Montello, 2019

L’Azione, domenica 25 aprile 2021

Guido, figlio del Ventennio

“Guido, figlio del Ventennio” è il titolo dell’ultima fatica dell’opitergino Vito Marcuzzo, appassionato indagatore della storia della sinistra Piave a cavallo tra i due conflitti mondiali.  

L’argomento di questa sua nuova pubblicazione riguarda la breve vita di Guido, un giovane di Oderzo il quale, essendo nato giusto un secolo fa, visse l’infanzia e l’adolescenza durante il regime fascista. L’autore ricostruisce le sue vicende private attraverso documenti scovati in collezioni private nonché in archivi locali e nazionali, e i ricordi di gioventù di chi lo conobbe. Tutto questo serve a Marcuzzo anche per raccontare la vita di Oderzo e dei suoi dintorni attraverso alcuni protagonisti dell’epoca tra cui due emigrati di successo (Geremia Lunardelli e Amedeo Obici), politici come il conte Alessandro Marcello, Angelo Tommaso Tonello e Gerolamo Lino Moro e mons. Domenico Visentin, il carismatico abate-parroco di Oderzo del quale emergono soprattutto i forti contrasti che ebbe con le autorità fasciste locali. 

Il cognome del protagonista emerge solo verso la fine della storia, più o meno quando Guido risponde alla chiamata alle armi: arruolato nell’artiglieria alpina del gruppo “Conegliano”, gruppo a sua volta inquadrato nella brigata Julia, lascia l’Italia prima per Scutari, in Albania, e poi per la campagna di Russia dalla quale non farà ritorno. Cambia così anche il tono delle pagine, che si riempiono della fitta corrispondenza del protagonista fino all’oscuro epilogo, e diventano così il vivo ritratto della vita quotidiana di un soldato al fronte, in fondo tanto simile a quella di centinaia di migliaia, per non dire milioni, di suoi coetanei in mezzo mondo. 

Nota a parte merita l’apparato fotografico, per la gran parte del tutto inedito, a corredo del testo.  

Vito Marcuzzo
Guido, figlio del Ventennio 
Gianni Sartori editore, 2020
360 pagine, 22 euro

L’Azione, domenica 6 settembre 2020

Oderzo e Venezia Bizantina

Abbiamo ancora bene impresse nella nostra memoria le immagini delle devastazioni causate dall’acqua alta a Venezia. Ma ci fu un lunghissimo tempo in cui in laguna l’acqua, più che un pericolo, era fonte di vita, via di comunicazione e soprattutto barriera di difesa: questo in particolare nei primissimi secoli di esistenza della città, ancora avvolti in quella coltre di mistero che solo certe leggende sanno dare.
Venezia bizantina: dal mito della fondazione al 1082 è il titolo di un saggio pubblicato da Nicola Bergamo per i tipi della Helvetia editrice di Marghera; Bergamo, classe 1977, veneziano, è considerato uno dei principali studiosi italiani dell’Impero Romano d’Oriente. Tra le pagine del libro, l’autore si muove con destrezza tra storia e leggenda mostrando come la prima serva a spiegare la seconda, e viceversa. Tutto questo per raccontarci la storia della città dalle sue fumose origini fino alla sua completa indipendenza dal potere di Costantinopoli verso la fine dell’undicesimo secolo.
Facendo questo, l’autore ha inevitabilmente incrociato quella storia con la storia di Oderzo. Siamo parlando del settimo secolo dopo Cristo, ovvero degli anni di san Tiziano vescovo: l’antica Opitergium, pur essendo ormai lontana dai fasti di un tempo, era con ogni probabilità la capitale amministrativa di un distretto controllato dall’Impero Romano d’Oriente che nel 697 sarebbe diventato ducato e in seguito evolutosi nella Repubblica di Venezia. Proprio al 697 risalirebbe la nomina dell’opitergino Paolo Lucio Anafesto a primo doge veneziano; il dott. Bergamo mostra come, al di là di questa figura probabilmente leggendaria, rimane il fatto che la nobiltà opitergina, trasferitasi nella più sicura Eraclea per sfuggire alle incursioni longobarde, ebbe un ruolo decisivo nella nascita e lo sviluppo di quell’umile comunità di profughi nella zona di Torcello che lentamente sarebbe diventata la splendida città che tutto il mondo oggi ci invidia.
Nicola Bergamo sarà a Oderzo il prossimo 11 gennaio alle ore 17, presso la sala del Campanile, a presentare questa sua opera.

Serge Latouche a Sernaglia della Battaglia

C’era veramente, ed è proprio il caso di dirlo, il pubblico delle grandi occasioni lo scorso giovedì 8 novembre nella sala convegni comunale di Sernaglia della Battaglia: per il filosofo francese Serge Latouche l’affluenza è stata ben superiore ai duecento posti della capienza della sala, al punto che gli ultimi arrivati hanno dovuto accontentarsi della diretta televisiva all’esterno dell’edificio.
La serata è stata organizzata dall’amministrazione comunale e da La Chiave di Sophia, quadrimestrale di filosofia di Santa Lucia di Piave.
Il relatore, curiosamente, ha iniziato prendendo le distanze dalla definizione di “filosofo della decrescita felice”, che gli viene attribuita solo in Italia, vista l’ambiguità del termine. Il concetto di “felicità” infatti si diffonde in occidente solo nell’epoca dei Lumi: se prima, in una società fortemente cristianizzata, si parlava di “beatitudine”, quest’ultima gradualmente ha ceduto il passo appunto al concetto di “felicità”, concetto figlio di una società laica, borghese e fortemente individualista. In cosa consistesse la felicità l’hanno spiegato gli economisti: nel consumare, nell’aumento del Prodotto Interno Lordo. Se quindi la “beatitudine” ambiva ai beni spirituali, la felicità ora ambisce ai beni materiali, e da qui si è innescata una folle corsa alla crescita fine a se stessa basata sulla creazione di bisogni artificiali.
Ciò che però auspica Latouche non è una decrescita felice, con una conseguente diminuzione del PIL, quanto piuttosto l’uscire da questa logica di consumo che permea le nostre vite, ed è per questo che più che di “decrescita” sarebbe più corretto parlare di “acrescita”.
Il filosofo ha quindi voluto ricordare un figlio della nostra terra, quel Pier Paolo Pasolini che già aveva trattato a suo modo questi temi negli anni ’60 e ’70 e che quindi può essere annoverato tra i precursori della decrescita. Fu lui, per esempio, a far notare come il consumo si basi sull’infelicità e che la pubblicità a questo proposito serva a generare un senso di insoddisfazione in chi la fruisce. Ma questa “società della scarsità”, come l’ha definita, produce “lo spettacolo dell’abbondanza” negli scaffali dei supermercati e questa, a sua volta, produce sprechi e rifiuti.
Ma come si può uscire da tutto questo? Innanzitutto “ponendo un limite ai nostri bisogni”, perché in caso contrario non potremmo mai liberarci dal senso di insoddisfazione generato dal consumismo. E poi con un ritorno alla frugalità di un tempo, che non significa attuare una politica di austerità, quanto piuttosto sviluppare una “capacità di autolimitarsi”, soddisfare i propri bisogni senza consumare all’infinito.
A questa scelta etica che incide sul personale, occorre però una seconda scelta che incida a livello globale: una scelta comunicativa. La nostra è l’unica società della storia che si basa su concetti come competitività, razionalità ed efficienza, quando invece le altre cercavano la saggezza. E i saggi di tutte le civiltà hanno sempre sostenuto che il senso della misura è fondamentale per vivere bene. Occorre quindi un “mutamento antropologico” che riporti l’economia all’interno dei limiti posti dalla società e dalla politica. Latouche ha parlato di “buonsenso di un bambino di cinque anni”: parafrasando il grande attore Groucho Marx, ha concluso sostenendo che basterebbe un bambino di cinque anni per far capire ai politici che “una crescita infinita è incompatibile con un mondo finito”.

L’Azione, domenica 18 novembre 2018

Recensione di “Oderzo: la città di una vita” di Mario Bernardi

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È stato presentato lo scorso 15 ottobre “Oderzo: la città di una vita”, primo libro postumo di Mario Bernardi. Il volume è nato grazie ad un’intuizione di mons. Piersante Dametto poco dopo la scomparsa dell’intellettuale opitergino; don Piersante desiderava in questo modo dare la giusta vetrina al corpus di articoli scritti da Bernardi nei suoi quasi 29 anni di collaborazione (1986-2015) con Il Dialogo, il mensile della parrocchia di Oderzo. E la scelta su chi dovesse portare a termine questo compito non poteva che cadere su Giuseppe Migotto, altro fedele narratore da anni di “cose opitergine” nelle pagine dello stesso giornale.
La sua ricerca di archivio, non certo facile specie per quanto riguarda le prime annate, lontane dalle comodità della digitalizzazione, ha riportato alla luce circa centoventi articoli, a cui vanno aggiunte una trentina di poesie originali. Due terzi di questo materiale hanno trovato posto nel volume, ordinati secondo tre filoni: le persone, i luoghi, e le trasformazioni di questi ultimi (ma un po’ anche delle prime).
I personaggi descritti dall’articolista non sono quasi mai i notabili della cittadina, ma la gente comune: la bottegaia, il cappellano, la guardia carceraria, la maestra, l’invalido di guerra, il calzolaio, la cuoca, il commerciante, il gelataio… Per chi, come colui che firma questa recensione, per motivi anagrafici non ha potuto conoscere costoro, ciò che emerge è un dipinto asciutto della società antecedente ai due boom economici del dopoguerra, chiusa al mondo esterno e lenta ai mutamenti, ma proprio per questo caratterizzata da minori complessità e da pochi, ma certi, punti di riferimento. Oltre a questi personaggi sono ricordate da una parte figure di spicco come Rigoni Stern, Zanzotto o Gina Roma, e dall’altra i piccoli compagni di gioco dell’autore, citati nei suoi ricordi d’infanzia, alcuni dei quali divenuti da adulti esponenti di spicco della politica locale.
Nel corso degli anni Bernardi attraverso le pagine del Dialogo ha voluto anche esprimere la sua opinione sugli interventi urbanistici che hanno cambiato volto alla città nel dopoguerra: interventi dolorosi ma inevitabili nel processo di trasformazione di Oderzo da centro agricolo con le radici ben piantate nel passato a moderno centro produttivo, ma a volte poco rispettosi del contesto in cui si trovavano.
Le foto che corredano l’opera servono a volte a visualizzare i luoghi citati tra le pagine e scomparsi ormai da decenni, e a volte di difficile identificazione per chi non li ha frequentati. Il materiale fotografico proviene naturalmente dall’archivio del libraio Bepi Barbarotto, altro custode della memoria opitergina che ha contribuito ancora una volta ad testo che non può mancare nella biblioteca degli amanti della divulgazione storica locale.

Mario Bernardi – Giuseppe Migotto (a cura di)
Oderzo: la città di una vita
Gianni Sartori editore – Libreria Opitergina, Ponte di Piave 2016
262 pagine

L’Azione, domenica 30 ottobre 2016

Recensione de “Il Cammino di Verde”

Il Cammino di Verde” è un romanzo breve di Marco De Conti, scrittore di Fregona. La donna del titolo è Verde della Scala, nobildonna di Verona legata alla storia del Cenedese per aver sposato all’inizio del Trecento Rizzardo novello da Camino, signore di Serravalle, e averne in seguito commissionato la bellissima tomba ammirabile ancor oggi nella chiesa di Santa Giustina.
La storia inizia raccontando l’insofferenza della giovane Verde verso le rigidità della corte veronese e il suo desiderio di evadere, per quanto possibile, dal suo destino di nobile unita in matrimonio in nome della ragion di stato: tutto questo per vivere una storia d’amore autentica e profonda, desiderio condiviso dal marito sin dal giorno del loro matrimonio. De Conti per realizzare questa sua opera si è cimentato in un approfondito confronto con documenti storici di prima mano, in modo da poter dipingere con maggiore fedeltà numerosi scorci di vita quotidiana del Veneto del quattordicesimo secolo. Prendendosi comunque la libertà di spostare la residenza dei coniugi dal castello di Serravalle a quello di Piai di Fregona, l’autore inoltre esterna la propria passione per le terre del Cansiglio che, descritte con dovizia di particolari, fanno da sfondo alla storia d’amore dei due protagonisti: una storia che è frutto della creatività dell’autore ma che ricalca le effettive vicende personali e familiari degli stessi.
Ne risulta una storia agile e ben scritta, molto descrittiva, dove senza cadere nel buonismo a vincere sono l’amore e i sentimenti positivi.

Marco De Conti
Il Cammino di Verde
De Bastiani editore, 176 pagine, € 12

L’Azione, domenica 20 dicembre 2015

Recensione de “Cosa tremenda fu sempre la guerra”

È toccato ad una giovane ricercatrice opitergina, la ventiquattrenne Laura Fornasier, l’onore e l’onere di inaugurare la collana Memoria di popolo nella Grande Guerra della Gaspari di Udine, ovvero la casa editrice che detiene il più ricco catalogo in Italia sulla prima guerra mondiale. Il progetto, supervisionato da Ca’ Foscari, ricade nel programma di commemorazioni per il centenario del conflitto promosso dalla Regione Veneto, e intende conservare la memoria di storie di persone comuni legate al conflitto stesso. Vicende quindi avvenute lontano dai palcoscenici della guerra, ma non per questo meno utili nella definizione di un quadro storico accurato di quei tragici anni.
Il lavoro compiuto dall’autrice consiste nell’inventariazione, avvenuta tra marzo 2014 e aprile 2015, del cosiddetto “fondo Chimenton”, conservato nell’archivio diocesano di Treviso: una raccolta di documenti che prende il nome da mons. Costante Chimenton, delegato vescovile per la ricostruzione degli edifici ecclesiastici distrutti durante la guerra. La raccolta però va ben oltre ad ambiti meramente architettonici, offrendo uno spaccato dettagliato sull’opera della chiesa trevigiana negli anni della guerra e in quelli immediatamente successivi a favore dei parenti dei soldati, dei prigionieri e dei profughi sfollati in tutta Italia. A questo proposito vanno segnalate le numerosissime lettere presenti nel fondo inviate o ricevute dal vescovo di allora, il Beato Andrea Giacinto Longhin, e che hanno come mittenti o destinatari papa Benedetto XV, il generale Diaz, ministri o autorità militari, parroci sfollati insieme ai loro parrocchiani, ed altro ancora: missive che mostrano l’ampio raggio d’azione del prelato, ma anche i vari conflitti emersi tra preti e autorità statali in merito alle prese di posizione dei primi sulla guerra e la politica, e le conseguenti accuse di pacifismo e disfattismo a loro rivolte.
Va segnalato inoltre che, per ovvi motivi di vicinanza geografica, il fondo contiene riferimenti anche a varie parrocchie della diocesi di Vittorio Veneto.
Si tratta quindi di un’opera di consultazione che si rivolge in particolar modo a specialisti e storici locali che vogliano usarlo come punto di partenza per altre ricerche. Il progetto nel cui ambito è nato questo libro ha anche un sito internet: www.1915-1918.org.

Laura Fornasier
Cosa tremenda fu sempre la guerra
Gaspari editore, 188 pagine, € 15

L’Azione, domenica 20 dicembre 2015