Dialetto opitergino, quasi inossidabile…

Secondo una battuta che gira tra i linguisti, una lingua è un dialetto con un esercito. Quella veneta non ha più un esercito da oltre due secoli ma era, e rimane, una lingua: di dialetti, casomai, si può parlare se analizziamo il modo in cui la lingua è parlata in un luogo, con tutte le differenze rispetto a come si parla anche solo a pochi chilometri di distanza.

Al dialetto trevigiano parlato a Oderzo si è dedicata la dottoressa Chiara Zanini, ricercatrice all’università di Zurigo; nell’aprile 2022 chiese ai giornali locali, tra cui L’Azione, di diffondere tra gli opitergini un questionario anonimo compilabile su internet per studiare in che modo è cambiata la loro parlata negli ultimi decenni. Oggi manteniamo la promessa che facemmo allora di dare notizia dei risultati, pubblicati dal Journal of Linguistics, rivista edita dall’università di Cambridge.

Il titolo dell’articolo, ovvero L’é ciaro che se dise cusì. On Change in the System of Expletive Subject Clitics in Opitergino, è stato scelto perché inizia con l’elemento studiato nell’articolo stesso: la l con l’apostrofo iniziale infatti è detta “clitico espletivo soggetto”, una struttura presente nelle lingue dell’Italia settentrionale ma non nel cosiddetto italiano standard.

A rispondere all’appello della dottoressa Zanini furono in 176: dopo una attenta analisi, ottantasette questionari vennero selezionati per studiare, così, in che modo è variato l’uso dei clitici rispetto ad una volta. A questo proposito è stato prezioso il contributo di alcuni abitanti nati prima del 1942 per i quali l’italiano standard è stato di fatto la seconda lingua.

Come lo stesso studio afferma, l’esposizione della popolazione soprattutto ai programmi televisivi da settant’anni a questa parte ha avuto un risultato bidirezionale: da una parte l’emergere dell’italiano standard come lingua dominante, dall’altra l’imposizione di alcune varietà locali all’italiano stesso determinando la nascita dei vari italiani regionali.  Lo studio, portato avanti da un gruppo di lavoro coordinato dal dottor Francesco Gardani, sostiene che l’italiano standard abbia influenzato la variante locale opitergina. Fin qui, nulla di sorprendente, ma ciò che conta è il come: la conclusione è stata che il dialetto opitergino sia rimasto sostanzialmente stabile, ma con un indebolimento delle regole nei dichiarativi e l’erosione dell’obbligatorietà dei clitici negli interrogativi.

Detto in parole povere, rispetto ad una volta un opitergino potrebbe considerare più tollerabili affermazioni come “è ciaro?” o “è tardi” rispetto ai “l’è ciaro?” o “l’è tardi“, più corrette in quanto dotate di clitico. Questo potrebbe essere il sintomo di un cambiamento in corso, ovvero di un timido avvicinamento della parlata opitergina rispetto all’italiano standard, dovuto non solo all’influenza che la lingua nazionale ha sulla locale, ma anche ad una “ristrutturazione interna” della parlata locale: quest’ultima ipotesi è dovuta al fatto che gli intervistati hanno dimostrato una certa soggettività a dare le risposte, e che non è stata riscontrata una correlazione tra tali risposte e l’età degli intervistati.

Come si può vedere, siamo di fronte ad uno studio molto specifico e anche di difficile comprensione per i non addetti ai lavori, ma non certo privo di interesse: si pensi per esempio che le riflessioni che Pierpaolo Pasolini fece sui mutamenti antropologici degli italiani riguardarono anche i cambiamenti della lingua. La globalizzazione, il fenomeno che ha permesso che il primo studio in assoluto sulla parlata opitergina sia stato realizzato da un’università svizzera e pubblicato da una casa editrice britannica, sta inevitabilmente diminuendo l’uso delle lingue locali a favore delle nazionali; ma se, nonostante questo, una parlata locale come quella opitergina dimostra ancora una certa robustezza, si può affermare che la morte della lingua veneta sia tutt’altro che imminente.

Chi volesse approfondire l’argomento può accedere gratuitamente all’articolo integrale visitando il sito internet della rivista, rintracciabile tramite i motori di ricerca.

L’Azione, domenica 25 febbraio 2024

“Dune: parte 2” al memoriale Brion

In un mondo in cui la piaga della finanziarizzazione dell’economia si aggrava inesorabilmente, è doveroso ricordare le scelte controcorrente di una coppia di imprenditori trevigiani i quali ebbero sempre a cuore la ricaduta sociale della propria ricchezza non solo in vita ma anche, è proprio il caso di dirlo, dopo la morte. Stiamo parlando di Giuseppe Brion e Onorina Tomasin, fondatori della Brionvega, azienda di elettrodomestici di design i cui prodotti più iconici, come l’Algol o il Radio Cubo, oltre ad essere diventati simboli dell’Italia del boom economico sono oggi esposti in vari musei di arte contemporanea nel mondo e studiati all’università.

La loro tomba presso il cimitero di San Vito di Altivole, pur essendo visitata da decine di migliaia di appassionati da tutto il mondo, è ancora tutto sommato semisconosciuta ai più: la situazione è però destinata a cambiare in questi giorni con l’uscita di “Dune: parte II” di Denis Villeneuve, uno dei film di fantascienza più attesi del momento il quale, contenendo alcune scene girate proprio all’interno del complesso, gli regalerà una visibilità senza precedenti. La pellicola è tratta da un romanzo di fantascienza del 1965 che affronta un tema assai attuale, ovvero la prevaricazione dell’economia sulla politica; dal libro fu tratto un film già nel 1984, prodotto da Dino De Laurentiis e diretto da David Lynch.

Hollywood è arrivata a San Vito grazie allo scenografo di Villeneuve, un ammiratore di Scarpa che a lui si è ispirato per le ambientazioni dell’intero film. Le riprese sono state effettuate a luglio 2022: pochi giorni prima, per volontà degli eredi, la gestione del complesso era passata al Fondo Ambiente Italiano.

Il cosiddetto “memoriale Brion” si presterebbe bene non solo ad una riflessione sulla dottrina sociale della Chiesa, ma anche ad una vera e propria catechesi sulla vita sponsale e sulla morte essendo pregno di una spiritualità quasi medievale, nonostante il suo aspetto modernissimo.

Fortemente voluto da Onorina Tomasin alla morte del marito, avvenuta nel 1969, fu realizzato negli otto anni successivi da Carlo Scarpa, architetto veneziano a cui tra l’altro è dedicata una mostra di creazioni in vetro visitabile a Oderzo fino al 17 marzo. Egli, forse non per caso, in precedenza aveva già lavorato per due lungimiranti imprenditori cattolici come Enrico Mattei (per la chiesa del villaggio ENI in Cadore) e Adriano Olivetti (per il negozio Olivetti a Venezia), ed è significativo sottolineare come, pur avendo lavorato soprattutto in Veneto, pur non essendo laureato e pure poco incline all’autopromozione, Scarpa divenne già in vita uno degli architetti più apprezzati al mondo. Potendo letteralmente non badare a spese, per questa committenza poté esprimere al meglio la sua maestria realizzando il suo testamento artistico: non a caso alla sua morte, nel 1978, si fece tumulare all’esterno del memoriale.

A qualche chilometro di distanza, ovvero a Casella d’Asolo, la Brionvega ebbe uno stabilimento tra il 1965 e il 1985, quando venne chiuso per la crisi che aveva investito il settore: chi ci lavorò, oggi racconta di un luogo di lavoro sano ed esteticamente bello, dove stipendi e servizi aziendali erano superiori alla media, un po’ come avvenne in precedenza alla Olivetti e avverrà in seguito alla Luxottica. Se, come dice la dottrina sociale della Chiesa, “la singola persona non può operare a prescindere dagli effetti dell’uso delle proprie risorse, ma deve agire in modo da perseguire, oltre che il vantaggio personale e familiare, anche il bene comune”, si può di certo affermare che i coniugi Brion abbiano adottato questo modus operandi fino alla fine, concludendo la loro esistenza terrena regalando al mondo un’opera d’arte dentro alla quale chiunque può trovare un momento di pace, di riflessione, di spiritualità.

Due passi nel memoriale

Il visitatore, dopo aver oltrepassato il propileo d’entrata, si trova davanti un’apertura formata da due cerchi intrecciati azzurro e rosa, simbolo delle fedi nuziali. Girando a sinistra raggiunge i sarcofagi degli sposi, sormontati da un arcosolio come nelle sepolture paleocristiane: essi sono vicini e inclinati quasi a toccarsi ma distaccati, a ricordare il “finché morte non vi separi” delle promesse matrimoniali.

Dopo aver visitato le altre sepolture di famiglia, egli è invitato a tornare sui suoi passi seguendo le viuzze del complesso, strette e serpeggianti come le calli di Venezia, per raggiungere il padiglione della meditazione: un baldacchino di ferro circondato da un laghetto con le ninfee in stile giapponese, pensato per celare la vista dei dintorni ad una persona in piedi. L’invito è quindi a sedersi e concedersi del tempo per elaborare il lutto e riflettere sul senso della vita.

Altro importante edificio del memoriale è la cappella: di pianta quadrata, e circondata anch’essa dall’acqua, mostra all’entrata un grande arco a forma di omega, lettera finale dell’alfabeto greco. In questo luogo, come nel resto, convivono armoniosamente elementi esotici, come il tetto che ricorda le piramidi a gradoni, e cristiani, come la croce astile pendente dal soffitto, a rappresentare la storia della Salvezza dall’ebraismo (in basso) al cattolicesimo (in alto).

Dopo la pausa invernale, il memoriale Brion ha riaperto il 23 febbraio; le visite, dal mercoledì alla domenica, sono gratuite ma, per apprezzarne appieno la ricca simbologia, si consiglia la visita guidata, prenotabile visitando il sito internet del FAI.

Versione integrale dell’articolo pubblicato da L’Azione e La Vita del Popolo, domenica 3 marzo 2024

The Mistery Man, una mostra sulla Sindone

Nelle icone della Natività delle Chiese orientali esiste l’usanza di dipingere un sepolcro al posto della mangiatoia, a ricordare a tutti che Cristo è nato per morire. E a ricordarcelo, con una modalità decisamente d’impatto, è un’interessante mostra internazionale aperta a Chioggia ancora per tutto il tempo di Natale, chiudendo domenica 7 gennaio.
La mostra, di ideazione spagnola, si intitola “The Mistery Man”, e l’uomo del mistero in questione è la persona martoriata la cui figura è impressa sul telo della Sacra Sindone di Torino.
Il percorso inizia significativamente con una teca contenente trenta denari risalenti all’inizio del primo secolo: da lì, attraverso le sale allestite all’interno della chiesa di San Domenico, parte un’analisi a tutto tondo sulla reliquia. Essa è analizzata prima di tutto da un punto di vista storico, dando particolare importanza agli innegabili influssi che l’immagine sindonica ha avuto sul modo di rappresentare Cristo nell’arte a partire dal quinto secolo, e quindi scientifico. Dopo questa doverosa preparazione, resa efficace anche da un buon uso del multimediale, il visitatore viene introdotto nel presbiterio della chiesa dove, ai piedi di un antico crocifisso assai venerato in città, è esposta una impressionante statua iperrealistica dell’uomo del mistero.
Nonostante queste premesse, la mostra ha il pregio di non essere facilmente tacciabile di partigianeria. Al visitatore infatti è offerto un approccio prudente e severo da un punto di vista scientifico: tra i tanti studi effettuati nell’ultimo secolo sul telo sindonico, vengono considerati infatti solo quelli condotti con rigorosi criteri metodologici (o perlomeno in teoria, come nel caso della famosa e controversa datazione radiometrica del 1988). E questo perché così dev’essere l’approccio nei confronti di un oggetto unico al mondo e paragonabile, di fatto, al reperto di una scena del crimine.
Gli ideatori della mostra non danno risposte, né tirano conclusioni, ma lasciano tante molliche di pane lungo la strada: poiché la Sindone è una provocazione non solo per la scienza ma anche per la fede, sta al visitatore scegliere se raccoglierle. Per questo motivo “The Mistery Man” è un’esperienza che si rivolge, laicamente, al credente tanto quanto all’agnostico e all’ateo.

L’Azione, domenica 24 dicembre 2023

Punctum: voci e foto che raccontano

Silvia Longhi, fotografa originaria di Oderzo, lo scorso 10 giugno a Milano ha vinto il premio di miglior podcast indipendente di informazione alla seconda edizione degli Italian Podcast Award, il primo evento in Italia a premiare questo tipo di contenuti audio che negli ultimi anni ha raggiunto una larga diffusione anche nel nostro paese. “Punctum”, questo il nome del podcast, a partire da gennaio 2021 raccoglie alcune interviste che Silvia ha fatto ad alcuni colleghi; a marzo 2022 è partito lo speciale “Occhi sull’Ucraina”, dedicato ai fotografi attivi sul fronte del conflitto; “Punctum” è una produzione indipendente che si può ascoltare gratuitamente nelle principali piattaforme specializzate o visitando il sito internet silvialonghi.it.

Ti aspettavi questo premio?
No. Ero già contenta di essere arrivata tra i cinque finalisti, tenuto anche conto che le categorie riservate ai podcast indipendenti, ovvero quelli senza una casa di produzione alle spalle, erano tre in tutto (informazione, narrazione, intrattenimento). Avendo ascoltati gli altri finalisti, tutti prodotti di buona qualità, davo per scontato che avrebbe vinto qualcun altro.

Per quale motivo hai deciso di intraprendere questo progetto?
Si sono sommate nella mia testa due esperienze: da una parte la mia passione per gli audiolibri e i podcast, dall’altra la fotografia di reportage, che negli anni mi ha portata a conoscere colleghi della scena italiana, ed ascoltare aneddoti e i dietro le quinte del loro lavoro; storie che rimanevano confinate alle chiacchiere tra amici e colleghi, e mi sono resa conto che sarebbe stato bello farle sentire ad un pubblico più ampio.

Qual è stato il momento in cui ti sei resa conto che il tuo progetto stava raggiungendo una fetta di pubblico ampio?
Siccome le pubblicazioni di Punctum non sono frequenti, statistiche alla mano, non posso identificare quando questo è avvenuto… ma penso dopo la puntata con Alfredo Bosco: la sua presenza in televisione e sui giornali a causa del suo lavoro in Ucraina ha permesso all’intervista di avere una diffusione maggiore della media. Comunque mi era già capitato, partecipando a qualche festival della fotografia, di presentarmi per la prima volta a colleghi che già associavano il mio nome a Punctum: un certo passaparola era iniziato fin dalla prima puntata.

Qual è quella a cui ti senti più legata?
Proprio la prima, ovvero quella sugli “stalker” di Chernobyl: è la puntata che rispecchia meglio l’idea che avevo in mente fin dall’inizio e quella che mi ha richiesto più tempo per realizzarla, visto che avevo delle lacune tecniche che non ho voluto colmare improvvisando, e che mi ha spinta anche ad affidarmi a dei professionisti per esempio per la gestione delle voci. Ma voglio aggiungere anche l’intervista a Rodrigo Abd di Associated Press: è stato emozionante parlare due ore, sebbene a distanza, con uno dei primi fotografi ad aver messo piede a Bucha, in Ucraina.

Punctum è fermo dall’agosto scorso. Ci sono nuove puntate in arrivo?
Una è in lavorazione da tempo, ed ho intenzione di tornare al format originale; ma facendo questa cosa gratuitamente nel tempo libero, ed essendomi misurata con i miei limiti, non ho la pretesa di avere uscite costanti. Mi prendo il tempo necessario a pubblicare qualcosa che mi piaccia e sia piacevole per chi ascolta, fosse anche solo una puntata all’anno.

L’Azione, domenica 9 luglio 2023

La curiosa contemporaneità dei Black Country, New Road

Quella dei Black Country, New Road è una storia da raccontare, anche perché rappresenta un concentrato di episodi assai poco probabili, se non impensabili, fino a pochissimi anni fa. Si tratta di un collettivo di giovani e talentuosi musicisti inglesi (tra le quali Tyler Hide, figlia di Karl degli Underworld, la quale probabilmente non era ancora nata all’epoca di Born Slippy), che finisce la sua prima vita a inizio 2018 quando espelle il cantante, accusato di varie molestie sessuali, e cambia nome assumendo quello attuale.

I Nervous Conditions, ovvero la prima e breve vita del gruppo.

A subentrare come cantante e autore dei testi è il chitarrista Isaac Wood; il gruppo, in pieno clima pandemico, registra e quindi pubblica il primo album For The First Time a inizio 2021 e il secondo, Ants From Up There, ad un anno esatto di distanza; i due album, i concerti e le esibizioni dal vivo pubblicati su YouTube mostrano un Wood assai ispirato, carismatico ed inquieto, verosimile erede di personaggi come Ian Curtis (che non cito a caso, anche se la critica tende ad accostarlo ad altri grandi nomi del passato).

Epico.

Ma all’autodistruzione di certi grandi miti del rock Wood preferisce altro, per cui a inizio 2022 egli prende la felice decisione di ritirarsi dalle scene per curare la propria salute mentale.

Gli altri componenti, trovatisi per la seconda volta senza cantante e senza repertorio, dopo uno sbandamento iniziale e voci di scioglimento decidono di riordinare le idee e prima di Natale iniziano la loro terza vita con un bellissimo concerto alla Bush Hall di Londra che, oltre ad essere stato immortalato da un video su YouTube e un album, è diventato l’architrave di tutti i loro concerti del 2023, tra cui quello a cui ho partecipato a Villa Manin a Passariano (UD) lo scorso 16 luglio.

E fu così che i Joy Division diventarono New Order.

Vederli suonare sopra ad un palco come quello dove io facevo suonare i gruppi di inDipendenza Sonora ad un prezzo simbolico di 5 euro è stato un po’ straniante. Questo perché a mio parere, e non solo mio, si è trattato di un evento irripetibile essendo questi ragazzi destinati a calcare ben presto palcoscenici decisamente più importanti (sono comunque già stati a Glastonbury).

Auguro a tutti loro di non perdere mai quella bellissima attitudine da gruppetto del liceo che li caratterizza, e ad Isaac di liberarsi dei suoi demoni interiori…

…E chissà, prima o poi, di salire di nuovo su un palco con i suoi vecchi amici.

Oderzo rosa

E finalmente il grande giorno è arrivato: giovedì 25 maggio Oderzo per la prima volta è stata sede di tappa del Giro d’Italia, avendo ospitato la partenza della diciottesima frazione. Un giro che fino a quel momento, a causa del Covid, del maltempo e dell’attendismo dei ciclisti, non è certamente stato prodigo di spettacolo, ma che proprio a partire da quella tappa, terminata con il primo assaggio di Dolomiti, si è salvato con un crescendo di emozioni fino alla cronometro decisiva di sabato a Tolmezzo. 

Per l’occasione la cittadina si è doverosamente tinta di rosa, dai fiori nelle aiuole alle decorazioni dei negozi, presentando un’immagine davvero festosa alle migliaia di appassionati accorsi in città perfino dall’altra parte del mondo. 

Sul palco allestito in Piazza Grande, prima dei ciclisti sono saliti i bambini della classe 4A della scuola primaria “Francesco Rismondo” di Faè, in quanto vincitori del concorso BiciScuola 2023 promosso dall’organizzazione del giro. «È stata davvero una sorpresa visto che non avevamo preso in considerazione l’idea di vincere – confessa la maestra Elena Soldan – In fondo in concorso c’erano molte scuole di tutta la provincia». Cosa avete realizzato? «Un video dal titolo “Wolfie cerca lavoro” [Wolfie è la mascotte del Giro, n.d.A.]: i bambini hanno trovato su internet delle curiose immagini in bianco e nero dei vecchi giri; dopodiché hanno registrato un audio in cui suggerivano a Wolfie delle attività in base al contenuto delle foto… e alla fine io ho montato il tutto». Tutti i plessi in gara hanno partecipato, in precedenza, a delle lezioni di educazione civica con la Polizia di Stato. «Certo, e prima della premiazione i vincitori hanno potuto assistere ad una lezione aggiuntiva direttamente nel loro autobus-scuola: per tutti noi è stata un’esperienza divertente e significativa». 

Soddisfazione anche per i ragazzi del Pedale Opitergino: «I nostri giovani tesserati e i loro genitori si sono divertiti moltissimo – afferma Federico Parzianello. – Abbiamo visitato il villaggio delle squadre, ci sono passati davanti questi grandi campioni… Fin da bambino sognavo un momento così, per cui spero che sia stata una grande emozione anche per i nostri ragazzi. Forse alcuni di loro sono ancora troppo piccoli per rendersi conto di cosa hanno vissuto, ma credo che tra qualche anno diranno “io c’ero!”». 

Durante il consueto “foglio firma”, una sorta di appello dei ciclisti sul palco, è pure spuntata una torta per Geraint Thomas: la maglia rosa proprio quel giorno compiva 37 anni. Un compleanno davvero speciale per il gallese il quale, pur avendo un debito con la Fortuna riguardante la corsa rosa, sabato a Tolmezzo ha accettato molto sportivamente la sconfitta, cedendo il primo posto a Primož Roglič per appena 14 secondi. 

Alle 12.30 il momento più atteso: la partenza della tappa. O meglio, della passerella che i ciclisti hanno compiuto percorrendo una sorta di circuito che, da Piazza Grande, raggiungeva prima la chiesetta di san Giuseppe, quindi l’ospedale, poi la chiesa della Maddalena e infine via Umberto I per un suggestivo passaggio sotto al Torresin. 

Il gruppo ha quindi attraversato il Monticano proprio come avvenne in occasione della prima volta a Oderzo del giro, nel 1910, dirigendosi però stavolta in direzione Camino. Una grande prima volta anche per i caminesi, insomma: qui Luana, la titolare del noto ristorantino del centro, ha pensato bene di organizzare un momento conviviale per destinare il ricavato agli alluvionati della Romagna. 

Il gruppo ha quindi raggiunto la Cadore-Mare dove, in prossimità di Lutrano, ha preso formalmente il via la tappa, terminata dopo 161 km in Val di Zoldo, quando a tagliare il traguardo per primo è stato il ventiquattrenne di Piovene Rocchette Filippo Zana. 

Resta un po’ di disappunto per il fatto che la RAI, a differenza delle tivù a pagamento, abbia interamente snobbato la passerella opitergina, inutile ai fini delle classifiche ma assai suggestiva a livello estetico, iniziando il collegamento quando i ciclisti erano in centro a Camino; ma a parte questo, l’organizzazione impeccabile (almeno in apparenza è filato tutto liscio), l’entusiasmo della gente e la naturale “teatralità” di Piazza Grande sono state senza dubbio un ottimo biglietto da visita, e di spessore internazionale, per la città. 

L’Azione, domenica 4 giugno 2023

Giro d’Italia: diciannove volte a Oderzo

Ci siamo: giusto nelle ore in cui questo numero viene consegnato agli abbonati, Oderzo per la prima volta è sede di una tappa del Giro d’Italia, in occasione della sua edizione numero 106. 

In altre parole, quella del 25 maggio 2023 è una giornata storica per lo sport locale, in quanto Oderzo entra nella lista delle città che hanno ospitato la partenza o l’arrivo di una tappa della seconda competizione ciclistica più rinomata al mondo. 

Fino ad oggi, la carovana rosa a Oderzo c’era stata solo di passaggio; una ricerca sulle planimetrie delle passate edizioni e i quotidiani d’epoca ha permesso di stabilire che questi transiti dovrebbero essere stati in tutto diciannove: questo al netto di modifiche impreviste al percorso o di inesattezze nelle mappe. 

Il primo passaggio avvenne il 20 maggio 1910, in occasione della Udine-Bologna, seconda tappa della corsa, la seconda in assoluto ad attraversare il Veneto. La gara, pur avendo debuttato solo l’anno precedente, contava già un largo seguito tra la popolazione; l’organizzazione invece era ancora molto pionieristica, al punto che due corridori riuscirono a prendere un treno sotto falso nome, e per questo squalificati proprio quel giorno: a denunciarli fu il capostazione. 

A Udine, alle 5.05 del mattino, partirono in 84: a Oderzo transitarono intorno alle 8, provenendo da Motta di Livenza in direzione Ponte di Piave. Passarono necessariamente in Piazza Grande, essendo adiacente a quello che allora era l’unico ponte sul Monticano esistente in città. 

La carovana del Giro tornò a Oderzo nell’edizione del 1919, la prima organizzata dopo la Grande Guerra, in un territorio devastato dal conflitto: i ciclisti, per dire, due ore prima avevano attraversato a piedi il greto del Tagliamento a secco. Ripasseranno sette volte tra il 1920 e il 1940, e quindi ancora nel 1948, nel 1954, e quattro volte negli anni ’60, sempre percorrendo l’attuale statale Postumia. Il 5 giugno 1963, in particolare, la carovana sfilò silenziosa in segno di lutto per papa Giovanni XXIII, scomparso due giorni prima: oggi, verosimilmente, non ci sarebbe la stessa sensibilità. 

Anche in occasione del passaggio del 15 maggio 1981, a tredici anni dalla volta precedente, il mondo era scosso a causa di un papa: non erano passate neanche 48 ore dall’attentato a Giovanni Paolo II. A quella corsa partecipava per la prima volta, a 22 anni, l’opitergino Pierangelo Bincoletto: in base ad una antica regola non scritta del ciclismo, ottenne di effettuare la cosiddetta “visita parenti”, staccandosi dal gruppo per poi fare sosta al bar Pivetta, che si trova ancor’oggi a pochi passi dalla Postumia. Lì, ad accoglierlo, trovò un nutrito capannello di parenti, amici, vicini di casa, autorità e curiosi: tutto questo fu possibile grazie al minor livello di agonismo che ancora caratterizzava l’evento. 

Dopo di allora, gli opitergini per poter rivedere i ciclisti passare a due passi da casa dovettero aspettare ben ventitré anni, ovvero fino al 24 maggio 2004: in quell’occasione i corridori, provenienti da Motta, fecero un’inedita svolta in Cadore-Mare in direzione San Vendemiano dove fu Alessandro Petacchi a tagliare il traguardo per primo. Inediti sono stati anche gli ultimi due passaggi: il 23 maggio 2010 la carovana, proveniente da Casale sul Sile, entrò in via Garibaldi per un traguardo volante davanti al municipio, e quindi proseguì verso Pordenone; il 19 maggio 2016 invece il percorso passò per la circonvallazione nord da Ormelle verso Portogruaro, lambendo soltanto il centro abitato. Tutt’altra storia, insomma, rispetto a questa indimenticabile ventesima volta. 

L’Azione, domenica 28 maggio 2023