“Dune: parte 2” al memoriale Brion

In un mondo in cui la piaga della finanziarizzazione dell’economia si aggrava inesorabilmente, è doveroso ricordare le scelte controcorrente di una coppia di imprenditori trevigiani i quali ebbero sempre a cuore la ricaduta sociale della propria ricchezza non solo in vita ma anche, è proprio il caso di dirlo, dopo la morte. Stiamo parlando di Giuseppe Brion e Onorina Tomasin, fondatori della Brionvega, azienda di elettrodomestici di design i cui prodotti più iconici, come l’Algol o il Radio Cubo, oltre ad essere diventati simboli dell’Italia del boom economico sono oggi esposti in vari musei di arte contemporanea nel mondo e studiati all’università.

La loro tomba presso il cimitero di San Vito di Altivole, pur essendo visitata da decine di migliaia di appassionati da tutto il mondo, è ancora tutto sommato semisconosciuta ai più: la situazione è però destinata a cambiare in questi giorni con l’uscita di “Dune: parte II” di Denis Villeneuve, uno dei film di fantascienza più attesi del momento il quale, contenendo alcune scene girate proprio all’interno del complesso, gli regalerà una visibilità senza precedenti. La pellicola è tratta da un romanzo di fantascienza del 1965 che affronta un tema assai attuale, ovvero la prevaricazione dell’economia sulla politica; dal libro fu tratto un film già nel 1984, prodotto da Dino De Laurentiis e diretto da David Lynch.

Hollywood è arrivata a San Vito grazie allo scenografo di Villeneuve, un ammiratore di Scarpa che a lui si è ispirato per le ambientazioni dell’intero film. Le riprese sono state effettuate a luglio 2022: pochi giorni prima, per volontà degli eredi, la gestione del complesso era passata al Fondo Ambiente Italiano.

Il cosiddetto “memoriale Brion” si presterebbe bene non solo ad una riflessione sulla dottrina sociale della Chiesa, ma anche ad una vera e propria catechesi sulla vita sponsale e sulla morte essendo pregno di una spiritualità quasi medievale, nonostante il suo aspetto modernissimo.

Fortemente voluto da Onorina Tomasin alla morte del marito, avvenuta nel 1969, fu realizzato negli otto anni successivi da Carlo Scarpa, architetto veneziano a cui tra l’altro è dedicata una mostra di creazioni in vetro visitabile a Oderzo fino al 17 marzo. Egli, forse non per caso, in precedenza aveva già lavorato per due lungimiranti imprenditori cattolici come Enrico Mattei (per la chiesa del villaggio ENI in Cadore) e Adriano Olivetti (per il negozio Olivetti a Venezia), ed è significativo sottolineare come, pur avendo lavorato soprattutto in Veneto, pur non essendo laureato e pure poco incline all’autopromozione, Scarpa divenne già in vita uno degli architetti più apprezzati al mondo. Potendo letteralmente non badare a spese, per questa committenza poté esprimere al meglio la sua maestria realizzando il suo testamento artistico: non a caso alla sua morte, nel 1978, si fece tumulare all’esterno del memoriale.

A qualche chilometro di distanza, ovvero a Casella d’Asolo, la Brionvega ebbe uno stabilimento tra il 1965 e il 1985, quando venne chiuso per la crisi che aveva investito il settore: chi ci lavorò, oggi racconta di un luogo di lavoro sano ed esteticamente bello, dove stipendi e servizi aziendali erano superiori alla media, un po’ come avvenne in precedenza alla Olivetti e avverrà in seguito alla Luxottica. Se, come dice la dottrina sociale della Chiesa, “la singola persona non può operare a prescindere dagli effetti dell’uso delle proprie risorse, ma deve agire in modo da perseguire, oltre che il vantaggio personale e familiare, anche il bene comune”, si può di certo affermare che i coniugi Brion abbiano adottato questo modus operandi fino alla fine, concludendo la loro esistenza terrena regalando al mondo un’opera d’arte dentro alla quale chiunque può trovare un momento di pace, di riflessione, di spiritualità.

Due passi nel memoriale

Il visitatore, dopo aver oltrepassato il propileo d’entrata, si trova davanti un’apertura formata da due cerchi intrecciati azzurro e rosa, simbolo delle fedi nuziali. Girando a sinistra raggiunge i sarcofagi degli sposi, sormontati da un arcosolio come nelle sepolture paleocristiane: essi sono vicini e inclinati quasi a toccarsi ma distaccati, a ricordare il “finché morte non vi separi” delle promesse matrimoniali.

Dopo aver visitato le altre sepolture di famiglia, egli è invitato a tornare sui suoi passi seguendo le viuzze del complesso, strette e serpeggianti come le calli di Venezia, per raggiungere il padiglione della meditazione: un baldacchino di ferro circondato da un laghetto con le ninfee in stile giapponese, pensato per celare la vista dei dintorni ad una persona in piedi. L’invito è quindi a sedersi e concedersi del tempo per elaborare il lutto e riflettere sul senso della vita.

Altro importante edificio del memoriale è la cappella: di pianta quadrata, e circondata anch’essa dall’acqua, mostra all’entrata un grande arco a forma di omega, lettera finale dell’alfabeto greco. In questo luogo, come nel resto, convivono armoniosamente elementi esotici, come il tetto che ricorda le piramidi a gradoni, e cristiani, come la croce astile pendente dal soffitto, a rappresentare la storia della Salvezza dall’ebraismo (in basso) al cattolicesimo (in alto).

Dopo la pausa invernale, il memoriale Brion ha riaperto il 23 febbraio; le visite, dal mercoledì alla domenica, sono gratuite ma, per apprezzarne appieno la ricca simbologia, si consiglia la visita guidata, prenotabile visitando il sito internet del FAI.

Versione integrale dell’articolo pubblicato da L’Azione e La Vita del Popolo, domenica 3 marzo 2024

Addio, megadirettore galattico

Oggi ci ha lasciato Paolo Paoloni.

Questa notizia inevitabilmente mi ha spinto a riguardarmi la scena finale del primo film di Fantozzi, quella in cui Paoloni, impersonando il Megadirettore Galattico Duca Conte Maria Rita Vittorio Balabam, ci ha lasciato un sunto di quasi tutto il peggio del progressismo liberal che, partito dagli Stati Uniti, va ora purtroppo di moda in buona parte del mondo occidentale.

Parliamo di quella politica altezzosa, petalosa, lontana dalla gente, che strizza l’occhio a personaggi come Steve Jobs o Marchionne, e che poi alle urne si fa battere da soggettini che non vale nemmeno la pena nominare.

Ecco, se io dovessi tenere una serata in una scuola di formazione politica, inizierei mostrando con questo video, giusto per far capire subito qual è la direzione da non prendere.

Un film uscito nel 1975. Lo stesso anno, tra l’altro, in cui è stato assassinato un altro personaggio che aveva capito in anticipo da che parte stava andando il mondo.

Giovanni Betto, dal teatro al cinema

fonte: Circolo Cinematografico Enrico Pizzuti

Tra gli attori non protagonisti di Finché c’è prosecco c’è speranza figura anche l’attore coneglianese Giovanni Betto, che abbiamo contattato per farci raccontare questa sua piccola prima esperienza cinematografica.

Come sei finito a fare il film?
Come un perfetto sconosciuto: mi sono iscritto al casting. Poi è successo un piccolo disguido: il giorno prima dei provini mi ha chiamato un’amica dicendo che stavano cercando qualcuno disposto a “dare le battute” ai partecipanti al casting (i quali in sostanza fanno il provino rispondendo a un attore); ho dato la mia disponibilità specificando però che avrei sperato di partecipare anch’io… Dopo due ore la produzione del film mi ha chiamato dicendo che c’era stato un errore e che avrei fatto il provino.

E quindi?
Ho fatto il provino col regista, il qualche mi ha fatto recitare due-tre volte qualche battuta che mi avevano mandato il giorno prima, e poi gli ho raccontato chi sono e cosa faccio nella vita: due giorni dopo mi ha chiamato il produttore dicendomi che il regista mi voleva per la parte. Evavamo in cinque a contendercela; era la prima volta che partecipavo ad un casting, peraltro in un luogo che non mi aspettavo: il municipio di Conegliano. Per il teatro non ne avevo mai fatti.

Che differenza hai riscontrato rispetto alla recitazione a teatro?
Non credo di poter rispondere a questa domanda visto che il cinema l’ho solo sfiorato, avendo una parte minore: non avevo ottanta scene su centodieci come il protagonista Giuseppe Battiston, e un impegno quasi quotidiano sul set. In cinque settimane di riprese sono stato presente cinque giorni, con scene da sei-sette battute: potrei dirti che insomma è stata un’esperienza rilassante, quasi di divertimento; non ho conosciuto la fatica del set.
Diciamo che dopo questa mia piccola esperienza posso dire che a teatro si fa più fatica: è tutto in diretta e non si può sbagliare, c’è una tensione emotiva diversa. Ma è stato interessante vedere da dentro questa macchina enorme che si muove, con molta tecnica e precisione… e con tempi lunghissimi: si viaggiava a tre-quattro scene a giorno.

Eppure non sembravano scene particolarmente complesse.
Non è esatto. Mi sono reso conto che quello che uno vede sullo schermo è molto poco: due minuti di film corrispondono a una scena ripetuta una decina di volte, tagliata e montata.

Qual è la tua opinione sul film e sul suo tema?
Secondo me è un film garbato, e dal mio punto di vista è uno dei suoi punti di forza. Delle persone hanno storto il naso perché ritengono il film un grosso spot per i produttori di vino, o perché non ha calcato molto sul problema dei pesticidi, ma io non credo all’arte che approccia certe tematiche in modo urlato, con una certa violenza, seppur verbale: non funziona. Secondo questo approccio me funziona meglio: quello che voleva dire il film viene detto con stile e con frasi precise, per esempio “Non si chiede alla terra più di quello che ci può dare”. Il messaggio insomma è chiaro se lo si vuol capire. La sua è una denuncia tranquilla: non mi sarebbe piaciuto un film che strepita.

Sei soddisfatto della tua prova di attore?
Mannaggia! Mi hanno tagliato una bella scena, ma il film una volta montato durava due ore e cinque minuti, per cui hanno dovuto tagliare mezz’ora. Nonostante questo sono rimasto contento… e credo anche di essermela cavata bene.

Che riscontri hai avuto dal pubblico?
Certo, io sono di parte, ma ho letto commenti in rete e messaggi sul mio telefono numerosi e mediamente entusiasti. Il primo giorno di programmazione ho avuto notizie da Treviso, Pordenone e Conegliano di gente rimasta fuori dai cinema, e il film è stato distribuito in più sale del previsto. Ho letto una bella recensione ne “Il Foglio”, e anche Marzullo ne ha parlato bene; certo non entrerà nella storia, ma è un buon film che mostra la bellezza e allo stesso tempo la fragilità del nostro territorio.

L’Azione, domenica 26 novembre 2017

La mia su “Blade Runner 2049”

*** Avvertenza: niente spoiler, ma per questo mi tocca essere un più vago del previsto. ***
Blade Runner lo vidi per la prima volta al liceo in lingua originale con la prof di inglese e fu subito amore a prima vista, per questo rimasi un po’ perplesso quando seppi che sarebbe stato prodotto un seguito, peraltro a così ampia distanza (trentacinque anni).
A mio dire, la migliore fantascienza è quella che, col pretesto di mostrarti il futuro, ti interroga sul presente. Quel che ci mostra Blade Runner 2049 è principalmente l’amore, e la solitudine, ai tempi dell’intelligenza artificiale. E, anche per questo, solleva un grande interrogativo: cos’è umano? E cosa non lo è?
Si tratta di temi già sviscerati dal film cult del 1982; la nuova pellicola si spinge addirittura oltre, fino a portarli alle estreme conseguenze. Ma per il resto parliamo di due film assai diversi.
Denis Villeneuve e soci intelligentemente hanno scelto di “prendere le distanze” dal primo film, evitando così un aperto confronto dal quale ne sarebbero usciti inevitabilmente sconfitti. Ci propongono quindi una storia molto diversa da quella dell’illustre predecessore (vero, J. J. Abrams?), con richiami alla vecchia pellicola che sono funzionali alla narrazione, quindi niente mere citazioni atte solo a far arrapare i fan (vero, J. J. Abrams?).
In sostanza, BR2049 riesce bene dove Star Wars: il risveglio della Forza ha dato invece risultati altalenanti. Impossibile non pensare all’episodio VII della saga di Guerre Stellari soprattutto per due motivi: in primo luogo per la presenza di Harrison Ford, che torna a rivestire i panni di un personaggio che lo rese celebre negli anni ’80; in secondo luogo, per una questione etica che sarà sempre più rilevante nell’industria cinematografica del futuro: è giusto ringiovanire, o addirittura resuscitare, un attore “incollandone” i lineamenti sul corpo di un altro grazie alla CGI? Un dilemma che, a pensarci bene, si sposa benissimo con i contenuti di questa pellicola.
Ottima anche la fotografia, spesso assai lontana dalla cupa claustrofobia del primo film, il quale si scontrava per forza anche con la limitatezza degli effetti speciali dell’epoca. Da segnalare poi il ritorno di un’ambigua figura cristologica (Il maestoso Rutger Hauer che andava incontro alla morte crocifiggendosi da solo lascia spazio ad un Jared Leto nei panni di un imprenditore-divinità).
Bene anche l’onnipresente Hans Zimmer che commenta musicalmente il tutto come si deve: certo, se vi aspettate un tema immortale tipo quello di Vangelis per i titoli di coda del vecchio film, rimarrete delusi (ma, ahinoi, l’epoca delle grandi colonne sonore per il momento è sospesa, sappiatelo). Idem se sperate in qualche dialogo memorabile alla “Ho visto cose che voi umani non potete neanche immaginare”.
In conclusione: dare un degno seguito a un filmone come Blade Runner era un’operazione molto rischiosa. Ma a mio dire difficilmente si poteva fare di meglio. Promosso, decisamente.

“Fuori dal cinema”, serate di musica e sport

“Fuori dal cinema” e “Adotta un videoproiettore”: sono queste le iniziative in corso al Circolo Cinematografico Enrico Pizzuti di Oderzo. Ci spiega di cosa si tratta Paolo Pizzuti, attuale presidente del circolo stesso.
«Il circolo ha cambiato denominazione due anni fa – ci spiega – per volontà dei vecchi soci che vollero così onorare la memoria di mio padre, presidente e proiezionista ai tempi della vecchia denominazione. Ci siamo così dati degli obbiettivi: il primo il cinema, avendo avuto l’autorizzazione del parroco di tornare a usare la sala Turroni dopo i restauri alla stessa. Ma poi pensammo: perché non allargare ad altre forme d’arte come la musica o il teatro? E così abbiamo fatto, a partire dal settembre 2015. L’estate successiva abbiamo voluto concretizzare questa nostra volontà di spaziare con “Fuori dal cinema”, un festival che si chiama così in due sensi: perché si tiene fisicamente all’esterno della sala, e perché non c’è cinema, anche se qualcosa di cinematografico riusciamo ad inserirlo».
Qual è la formula?
«Sia l’anno scorso che quest’anno è composta da due serate di musica, e da una terza generica, in entrambi i casi a carattere sportivo. L’idea è portare l’atmosfera intima del cineforum all’esterno con una proposta diversa».
Com’è stato il riscontro di pubblico? E ve lo aspettavate?
«Ogni sera è cresciuto, perché tanti passavano di là per caso e poi tornavano la volta dopo. Siamo partiti da 100-120 e siamo arrivati all’ultima sera con picchi di duecento, finendo le sedie. Più che aspettarselo diciamo che lo speravamo… Inoltre si tratta di un pubblico diverso da quello che frequenta il cineforum nei mesi invernali e che speriamo, in questo modo, di agganciare, proprio com’è avvenuto con il corso di cinema tenuto recentemente da Elena Grassi».
Spiegaci l’iniziativa “Adotta un proiettore”.
«Dopo la ristrutturazione il Turroni formalmente non è più un cinema, non avendo più una sala proiezioni, ed ha un proiettore a soffitto la cui qualità a mio dire non è adatta ad una fruizione cinematografica, e questo mi è stato confermato da esperti del settore. È giusto che, se invitiamo registi di livello, la qualità dell’immagine dei loro film sia all’altezza. Abbiamo quindi pensato di prendere un proiettore professionale da una ditta di Crocetta di Montello che serve i cinema della zona: lo abbiamo provato con loro e il risultato è stato tutta un’altra cosa. Il preventivo è di circa settemila euro: mille intanto li mettiamo noi, il resto puntiamo a raccoglierlo entro novembre con una raccolta fondi. Se riusciamo ad andare oltre potremo cambiare anche lo schermo. Stiamo pubblicizzando l’iniziativa in ogni modo, anche cercando testimonial: il primo ad accettare è stato Natalino Balasso».
Il tutto sarebbe di proprietà della parrocchia.
«Ne abbiamo parlato anche con mons. Pierpaolo ha dato parere favorevole e ci darà una mano; il proiettore sarà ad uso esclusivo della sala ma a disposizione di tutti coloro che la useranno».
Come si può contribuire?
«Si può pagare in due modi, entrambi sicuri, nel nostro sito internet. Tutti i donatori che offriranno dai 50 euro in su riceveranno un invito ad una serata riservata. Se non raggiungeremo la cifra tutto sarà restituito».
“Fuori dal cinema” inizierà venerdì 23 giugno con il concerto del cantautore veneziano Marco Iacampo; secondo appuntamento il 29 con l’ensemble multietnico Safar Mazì. Ultimo appuntamento sabato 8 luglio con Manolo, celebre arrampicatore e simbolo dell’alpinismo italiano.

L’Azione, domenica 25 giugno 2017

21 ottobre 2015. Dove stiamo andando, non c’è bisogno di strade.

Oggi è il 21 ottobre 2015. Chi, come me, fin dalla tenera infanzia ha visto e apprezzato la trilogia di Ritorno al Futuro e, a distanza di anni, non riesce ancora a smettere, non poteva che attendere questa data con vivace curiosità.

(E dico “curiosità” perché non voglio usare formule impegnative come “ansia”, “grandi aspettative” o altro, perché, in fondo, ci sono cose più importanti nella vita).

Considero questa saga un prodotto di intrattenimento cinematografico al limite della perfezione, e che sotto certi aspetti riesco ad apprezzare meglio ora che sono cresciuto. Trovo per esempio notevole il modo in cui Robert Zemeckis e i suoi autori siano riusciti, soprattutto nel loro 2015 immaginario, a guardare agli anni ’80 in prospettiva storica e pure nostalgica, mostrandone alcune caratteristiche iconiche dalle quali non possiamo prescindere quando li pensiamo. E tutto questo mentre essi erano ancora in corso.

Ma non finisce qui. Del primo episodio è interessante notare come, dietro alla storia di un adolescente che si ritrova a dover salvare il matrimonio dei propri genitori, si celi un particolarissima e divertente riflessione sul complesso di Edipo. Del secondo episodio, quello che festeggiamo oggi e che preferisco dei tre, amo la trama intricatissima, l’atmosfera da romanzo gotico ottocentesco del cosiddetto “1985 alternativo” e il richiamo piuttosto evidente di quest’ultimo a La vita è meravigliosa di Frank Capra; dell’ultimo capitolo, infine, apprezzo l’omaggio probabilmente inevitabile ai nostri mitici spaghetti western, e la tensione delle scene finali che mi tiene incollato al divano ogni volta che mi ritrovo a guardarle. E non posso dimenticare le belle riflessioni sui paradossi spazio-temporali che questa trilogia inevitabilmente provoca.

Di tutta la saga mi piace tantissimo il messaggio, tutt’altro che scontato in un mondo dove ancora si fugge dalle responsabilità aggrappandosi ad oroscopi, destini, profezie di Nostradamus e calendari Maya, che il nostro futuro non è scritto, ma ce lo costruiamo giorno per giorno con le nostre scelte: il nostro futuro, non il mio, perché le mie scelte possono influenzare, anche pesantemente, il futuro degli altri. E viceversa.

La visione del futuro del secondo episodio, diciamolo, ci ha azzeccato decisamente meno di quanto affermino certi roboanti articoli che ho letto in questi giorni. Marty McFly nel “suo” 2015 trova macchine volanti, vestiti intelligenti e case piene di fax e videotelefoni, ma per esempio non trova ne’ internet ne’ i telefoni cellulari, sebbene nel 1989 esistessero già.

Domani invece USA Today, notissimo quotidiano americano, uscirà con una copertina removibile che riproduce la prima pagina immaginaria, datata 22 ottobre 2015, che compare nel suddetto film (ed ho già chiesto ad un paio di amici americani di procurarmene una copia). Lo fa in maniera piuttosto fedele: la differenza più vistosa riguarda una notiziola che compariva sulla manchette, eliminata per motivi facilmente intuibili, riguardante… la visita di stato della regina Diana a Washington. Un titolo sulla colonna a sinistra cita invece la presidentessa degli Stati Uniti.

Ventisei anni dopo il presidente degli Stati Uniti non è donna, ma è un afroamericano. Eventualità all’epoca ritenuta probabilmente più impensabile. E all’epoca chi avrebbe potuto pensare che ventisei anni dopo la regina Elisabetta sarebbe stata ancora saldamente sul trono, ed oltretutto la povera principessa Diana defunta?

Sarebbe come se oggi io vi dicessi che nel 2041 Matteo Renzi sarà ancora Presidente del Consiglio. In fondo avrà “solo” sessantasei anni, no?

Morale della favola: fare previsioni sul futuro è difficile. E forse è meglio così: che certe cose sul futuro sia meglio non saperle lo diceva pure il buon vecchio Emmett Brown. Evitiamo quindi di lamentarci che non vedremo mai la pensione: piuttosto, agiamo fin da ora in modo che questo non accada, così come tante altre disgrazie preannunciate dalle varie Cassandre più o meno attendibili dei nostri giorni. Solo in questo modo potremo dire di aver appreso la grande lezione di questa splendida saga cinematografica.

E buon #BackToTheFutureDay.

“La storia del Vaiont” di Edoardo Semenza

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Oggi, 9 ottobre, è l’anniversario di una tragedia che qui dalle mie parti è ovviamente più sentita che altrove, per ovvie ragioni geografiche: la tragedia del Vajont.

Un testo che mi ha aiutato a farmi un’idea più oggettiva di questa complessa vicenda è La storia del Vaiont di Edoardo Semenza (Tecomproject 2002).

Edoardo Semenza (1927-2002) sarebbe l’allora giovane geologo che nel 1959 per primo individuò la paleofrana che quattro anni dopo, franando nell’alveo della diga, avrebbe provocato l’onda anomala che avrebbe spazzato via Longarone e i paesini circostanti, causando la morte di quasi duemila persone.

Il suo testo analizza la vicenda da un punto di vista principalmente scientifico; ben corredato di fonti, ha anche il merito di distinguere con un carattere tipografico differente sue parti più tecniche, dando così la possibilità al lettore meno esperto di saltarle.

L’autore in sostanza sostiene che la principale, ma non l’unica, causa del disastro sia da attribuire al fatto che in Italia, se non addirittura al mondo, all’epoca mancava una cultura adeguata nel campo della costruzione di dighe tale da poter intraprendere un progetto di tali dimensioni e caratteristiche. Secondo un approfondito studio condotto da due geologi americani nel 1985, studio che ha probabilmente scongiurato una catastrofe simile ma di dimensioni maggiori oltreoceano, si sarebbe potuto mettere in sicurezza la frana del monte Toc con alcune esplosioni controllate.

Molto utile l’appendice finale in cui l’autore analizza le più tre celebri opere dedicate a questo tragico evento: il libro Sulla pelle viva di Tina Merlin, l’opera teatrale (ed il libro corredato ad essa) Il racconto del Vajont di Marco Paolini e Gabriele Vacis, e il film Vajont – La diga del disonore di Renzo Martinelli.

Tre opere non esenti da errori ed imprecisioni, a volte trascurabili a volte no, e giustificabili solo in parti da esigenze di tipo letterario e/o artistico. Ma a prescindere da questo, soprattutto nel caso di Paolini, esse hanno dato un contributo decisivo a mantenere la memoria viva su questa triste vicenda, praticamente dimenticata al di fuori della valle del Piave prima del 9 ottobre 1997.