Padre Bergoglio: dalla parte dei perseguitati

E’ appena uscito, ma si sa già che tra due anni diventerà un film, con la regia di Liliana Cavani: tra le tante pubblicazioni su papa Francesco uscite in libreria da marzo ad oggi, La lista di Bergoglio si distingue perché prende in analisi l’attività del futuro papa Francesco durante la dittatura militare in Argentina. Quando essa iniziò, nel 1976, padre Jorge Mario Bergoglio aveva trentanove anni e ricopriva il ruolo di superiore dei gesuiti argentini. Il titolo del libro rimanda a Schlinder’s List di Steven Spielberg: se in quel film si raccontava di ebrei salvati da un imprenditore tedesco, in questo si racconta di dissidenti argentini che il giovane padre Jorge volle a tutti i costi proteggere, nascondendoli nel proprio collegio o favorendone l’espatrio. Tutto questo nel silenzio e con discrezione, poiché non doveva guardarsi solo dai militari, ma anche da certi esponenti del clero che fecero finta di non vedere i crimini della dittatura o, peggio, si macchiarono di collaborazionismo.
La “lista di Bergoglio”, probabilmente assai più lunga di quanto si intuisca leggendo, è composta da seminaristi, sacerdoti, catechisti, o persone impegnate nel sindacato, la politica, la cultura, a volte nemmeno credenti, ma che il futuro papa stimava pur magari non condividendone in pieno il modus operandi; essi avevano in comune l’essersi schierati dalla parte dei poveri e degli oppressi, venendo per questo sommariamente etichettati come comunisti o oppositori del regime e quindi personaggi da fermare con ogni mezzo. Dalle loro testimonianze, raccolte con una certa fatica dall’autore, giornalista di Avvenire, si scopre pure che Bergoglio nel 1977 passò alcuni giorni nel pordenonese, a casa di un emigrante italiano rimpatriato dall’Argentina, avvertendo anche una forte scossa di terremoto.
La prefazione del libro è stata affidata a Adolfo Pérez Esquivel, premio Nobel per la pace ed antifascista argentino il quale, pur dichiarando che Bergoglio avrebbe potuto esporsi di più, lo scagiona completamente dalle accuse di collaborazionismo a lui mosse già a partire dalla sera dell’elezione. Il libro contiene anche il testo di un rapporto riservato sul papa di Amnesty International, e la trascrizione integrale dell’interrogatorio a cui il cardinale Bergoglio si sottopose nel 2010 durante il processo ai torturatori del regime: rispondendo alle incalzanti domande del giudice, il prelato compie anche una breve ma esauriente analisi dei fenomeni dei “preti delle baraccopoli”, sviluppatisi in Sud America a seguito del Concilio Vaticano II.

Nello Scavo
La lista di Bergoglio. I salvati da Francesco durante la dittatura
EMI
€ 11,90

L’Azione, domenica 26 gennaio 2014

2011 in musica. Quinta parte

E siamo alla quinta ed ultima parte delle mie considerazioni musicali sul 2011. Avete ovviamente il diritto di non essere d’accordo!

  • Lüüp Meadow Rituals. Eh beh, questa è roba per palati fini. Nonostante la doppia umlaut (o forse no?) dietro a questa parolina di quattro lettere sta il progetto di un flautista greco, tale Stelios Romadialis. Non ha neanche la pagina su Wikipedia, ma per altre vie vedo che ha trent’anni e ha collaborato con pezzi grossi come Robert Wyatt e David Jackson (Van Der Graaf Generator). Non è certo un pivellino quindi, e lo dimostra con questo signor disco di folk sperimentale, ricco di bellissimi paesaggi sonori dipinti pescando appieno dalle sonorità balcaniche, rinnovate con strumentazioni e sonorità moderne. La tradizione che sposa l’avanguardia, e scusate se è poco. Non so cosa dire di fronte ad un capolavoro del genere, se non questo: ascoltatelo.
  • Tom Waits – Bad As MeWaits è un cantautore che non conosco molto, ma per il quale a quanto ho potuto vedere il tempo non passa, e così continua a pubblicare album significativi da ormai quarant’anni. Rispetto a Mule Variations (1999) qui sembra fare meno il crooner e divertirsi di più: i temi più o meno sono sempre quelli (la vita degli emarginati e degli “storti”) ma, per nostra fortuna, anche i risultati, assai buoni. E’ raro vedere un “sempre quello” che funziona così bene.
  • Brunori Sas – Vol. 2 – Poveri Cristi. Altro giovane e brillante cantautore nostrano al suo secondo lavoro, come indica il titolo stesso. Impossibile non accostarlo a Dente (vedi qui sotto), viste anche le reciproche ospitate nei loro ultimi dischi; ci sono certamente delle somiglianze, ma entrambi hanno ormai un loro stile definito. Brunori, vuoi per il repertorio più contenuto, è un po’ indietro rispetto all’amico e collega, ma comunque in questo suo secondo volume mostra i segni di un discreto miglioramento. Se vi piacciono Lucio Battisti, Edoardo Bennato e Rino Gaetano apprezzerete anche le scene di vita di tutti i giorni di questi “poveri cristi”.
  • Florence + The MachineCeremonialsPer questa loro opera seconda, il gruppo della giovane ed eclettica cantautrice Florence Welch (classe 1986) sforna una dozzina di pezzi godibili e barocchi, che si inseriscono nel solco del grande rock al femminile inglese degli ultimi anni (Siouxie & The Banshees in primis) ma anche di gruppi di tendenza (Arcade Fire) e classici (Jefferson Airplane); verrebbe quasi voglia di parlare di un'”Anna Calvi più radiofonica”, ma per motivi cronologici in realtà è Anna Calvi ad essere una Florence Welch meno radiofonica… A fare la parte (è proprio il caso di dirlo) del leone la potente voce, appunto, della cantante, e gli arrangiamenti sontuosi di Brian Epstein (lo stesso di 21 di Adele). Domanda: che disco sarebbe uscito, senza l’aiuto di quest’ultimo? Che è un po’ come chiedersi cosa sarebbero i Coldplay oggi senza Brian Eno. A proposito: se i F+TM pubblicano un altro paio di dischi così, tra cinque anni saranno famosi come i Coldplay. Scommettiamo? Interessante anche il secondo disco dell’edizione deluxe, con gli “scarti” e i demo.
  • James Blake James Blake. James Blake is the future, ha detto qualcuno. Mah: può anche darsi che sia il futuro, di certo questo sbarbatello musicista inglese non è il presente. Un po’ Bon Iver, un po’ Antony and The Johnsons, un po’ dubstep che fa sempre figo. Molta ma molta elettronica ma anche acerbità e un po’ di noia. E’ ancora un ragazzino (classe 1989), ne riparliamo tra qualche anno e qualche disco.
  • Chapel Club – PalaceEnnesimo gruppo indie rock post-punk inglese da 6 in pagella di cui nessuno sentiva il bisogno. Un po’ White Lies (sì, addirittura), un po’ Strokes, un po’ Morrisey, un po’… Eccheppalle. Differenza Italia-Regno Unito: mentre da noi da noi un sacco di talenti musicali non se li fila nessuno (e così qualcuno emigra), oltremanica un gruppo così “ordinario” lo produce Paul Epworth. Dimenticavo: secondo le non so quanto attendibili statistiche del sito Rate Your Music, i Chapel Club sono più popolari in Italia che in madrepatria. Dove abbiamo sbagliato?
  • Ladytron – The Best of Ladytron: 00-10Compilation ben riuscita come accade di rado: qui dentro ci sono più o meno tutti i pezzi che vale la pena ascoltare di quello che è considerato il maggior gruppo synthpop di questo primo scorcio di secolo. Tutto il resto si può anche tralasciare, o quasi. Di interessante ha sopratutto il vago odore di balcanico che si sente qua e là, grazie al contributo della cantante Mya Arroyo, bulgara.
  • Bud Spencer Blues ExplosionDo It. “It” come” esso”, ma anche come “italiano”. Perché, come Bud Spencer, questo gruppo ha un nome e uno spirito molto americano ma è italianissimo, ed è ironico e sciallo come il gruppo americano, appunto, al quale ha fregato il nome (i Jon Spencer Blues Explosion). Do It è il loro terzo album in studio e la loro seconda uscita del 2011 dopo il notevole ep Fuoco lento: questa volta, Cesare Petulicchio e Adriano Viterbini riescono come mai erano riusciti a vestirsi ora da bluesman consumati, ora da grunger, ora da infuocati figli di Jimi Hendrix, anche sfoggiando una tecnica notevole che però non è certo fine a se stessa. Il tutto condito da testi nonsense e scanzonati, che non raggiungono chissà che vette di poesia ma poco importa. Sarebbe interessante vedere prima o poi i risultati di una tournée negli Stati Uniti, dove certo si troverebbero molto a loro agio; nel frattempo godiamoceli noi italiani, visto che dal vivo spaccano come pochi.
  • I CaniIl sorprendente album d’esordio dei CaniAncora una volta l’apparenza vince sulla sostanza. Il caso indie italiano dell’anno è, in realtà, quanto di peggio poteva partorire l’indie italiano. Provocatorio fin dal titolo, in quanto a testi è una lunga e continua accozzaglia di luoghi comuni sul mondo dei giovani alternativi italiani, fascia 20-30 anni, che frequentano l’università e comprano la reflex per fotografare posaceneri; sotto certi aspetti, è la “risposta indie” a certe canzoni degli 883. Musicalmente invece è insignificante: una banale elettronica lo fi, sempre uguale. Il notevole chiacchiericcio e le discussioni nate attorno a questo disco (perfino articoli su quotidiani e riviste nazionali) si può spiegare solo in un modo: siamo in Italia.
  • Dente – Io tra di noiLa risposa a che dice che in Italia non ci sono più i cantautori. Il signor Giuseppe Peveri riesce a fare ancora di meglio del già buon precedente L’amore non è bello. Dodici pezzi abbastanza brevi (tranne l’ultimo), leggeri e piacevoli da ascoltare, e incentrati sull’amore, tra ardite metafore erotiche e citazioni che non ti aspettavi (tipo Ungaretti). Si sente bene l’eco di Lucio Battisti (e un po’ anche di Daniele Silvestri), ma non è affatto un limite, anzi. Avanti così!

2011 in musica. Quarta parte

Avanti col Cristo: quarta parte delle mie considerazioni su un po’ di roba che ho ascoltato l’anno scorso.

  • PJ Harvey – Let England Shake. La Polly Jean prosegue nel suo cammino artistico e di vita, e la ragazzina inquieta e sconcia di vent’anni fa da tempo ha lasciato il posto ad un’artista più matura ed in pace con se stessa. A differenza degli ultimi lavori, mi sembra accolti con giudizi discordanti, è quasi unanime la considerazione che Let England Shake sia uno dei migliori dischi della sua carriera, e lo dimostrano i premi vinti e la presenza quasi costante nelle tante classifiche “Best of 2011” nelle riviste di settore. Si tratta di un concept-album sulla guerra (con riferimenti alle due conflitti mondiali e i conflitti in medio Oriente) vista dagli occhi dei civili. Le atmosfere, però, sono tutt’altro che tetre, anzi: dei dischi che finora ho sentito di PJ (quasi tutti), questo mi è sembrato essere finora quello più immediato e ascoltabile. E’ difficile trovare un album che mischi così bene testi tutto sommato orecchiabili ma non per questo semplicistici o banali, una musica folk vecchio stile ma suonata in modo particolare (leggi l’utilizzo di strumenti come il sassofono e l’autoharp) e con felici intermezzi di rock alternativo. Da vedere anche i video, realizzati per ognuno dei dodici pezzi dell’album da Seamus Murphy.
  • Simona MolinariTua. La Molinari è senz’altro una brava interprete e pure molto carina (peculiarità quest’ultima che sfrutta anche troppo, trattandosi pur sempre di una cantante e non di una modella). Cantare musica pop con influssi jazz e swing va bene ma non rende automaticamente migliori di chi fa musica pop “normale”. Tutto questo, e la collaborazione con Peter Cincotti, fa troppo “versione italiana e femminile di Michael Bublè” (che non va bene). Cover fatte benino e inediti che non dicono niente di nuovo. Peccato.
  • Foo Fighters – Wasting Light. Non mi considero un grande estimatore del gruppo di Dave Grohl, anche se lo seguo (superficialmente) sin dai tempi di Learn to fly. Un disco di rock senza troppi fronzoli, ma ben fatto e ben suonato, che si ascolta con piacere. Se vi basta, questo disco è per voi.
  • Nathalie – Vivo sospesa. Il primo disco della cantautrice italo-belga, giunto finalmente al termine di una gavetta troppo lunga, rappresenta in qualche modo un punto di arrivo ed un riassunto di quanto fatto sinora, contenendo brani concepiti a volte anche otto anni prima. Ma non si può certo considerare un “best of”, vista la qualità di molti inediti non inclusi nel disco ma facilmente rintracciabili in rete. Tra le influenze, il cantautorato italiano e francese degli anni ’60-’70,  l’irish folk, i pianisti à la Michael Nyman, ma anche certe sonorità indie o gothic rock degli ultimi 15 anni (esempio Jeff Buckley, Muse, Tool) bene o male ormai assorbite dal mainstream. L’album si distingue anche per l’assoluta mancanza di riempitivi: la qualità rimane costante a punto che si faticherebbe a scegliere dei potenziali singoli. In scaletta brani dai testi intimisti in tre lingue, scelti (bene) in base a criteri di omogeneità ma forse anche con un po’ di freno a mano: sembra un po’ una Nathalie che non osa troppo per essere più comunicativa, una scelta di sana prudenza in una fase di certo delicata della sua parabola artistica. Per le sperimentazioni, insomma, c’è tempo.
  • AA.VV. – Villa TempestaA caval donato non si guarda in bocca, ma la compilation dei gruppi de La Tempesta regalata prima del grande concerto di Villa Manin non è affatto un granché. Sarà la scelta sbagliata dei pezzi, sarà che sono artisti non adatti ad una compilation (mica siamo al Festivalbar), sarà anche che tra questi più di qualcuno è decisamente sopravvalutato. Nel gran calderone, anche i pezzi più validi (Uochi Toki, Fine Before You Came, Massimo Volume) perdono mordente. Curioso l’unico inedito, a firma dell’ultimo progetto di Davide Toffolo, il Coro Anni Dieci: la riproduzione dei suoni di un temporale estivo in un bosco realizzato con voci e strumenti improvvisati.
  • Bon IverBon Iver, Bon Iver. Personaggio strano, questo Justin Vernon, cantautore trentenne proveniente dai monti del Vermont reduce da collaborazioni inusuali (la colonna sonora del secondo capitolo di Twilight, l’ultimo disco di Kanye West). Il secondo lavoro del progetto “Bon Iver” è un disco di folk alternativo etereo e sfuggente, interessante ma a tratti un po’ monotono. Vista la sua giovane età, ha ancora tempo per scrivere il capolavoro.
  • Radiohead – The King of Limbs. Di certo i Radiohead non sono mai uguali a loro stessi. O forse sì? Il loro ultimo lavoro, breve non certo facile, riporta alla mente quanto sentito in Kid A / Amnesiac, ma suona comunque diverso: sarà che in fondo nel frattempo sono passati dieci anni, sarà per il singolo funzionale alla radio (Lotus Flower) che ha qualcosa di nuovo, anzi d’antico, sarà per le spruzzatine di dubstep e di sonorità elettroniche care alla musica alternativa degli ultimissimi anni e che Thom Yorke e soci hanno ormai adottato. Questo è il limbo in cui attualmente soggiornano, ma il titolo del disco non c’entra nulla (limbs non significa “limbi” anche se in troppi la pensano così): il limbo del gruppo indie meno indie del mondo, che fa britpop che non è britpop, che non è commerciale ma che ormai ha venduto milioni di dischi ed è idolatrato in tutto il mondo. E che per questo può permettersi di autoprodursi, pubblicare qualsiasi cosa, regalare i propri dischi. E che si fa pagare bene per essere ascoltato (i concerti italiani dell’estate 2012, tra biglietto e commissioni, ammontano sui 56 euro, che sarà anche meno di quanto chiede Vasco, però…). La Storia ci dirà se fu vera gloria.
  • White LiesRitualUno dei tanti gruppi inglesi “un po’ alternativi” spuntati come funghi negli ultimi anni oltremanica. L’amore, la morte, l’oscurità, il basso ritmico, quattro accordi in croce, chitarre e sintetizzatori new wave, bla bla bla… Tutto già sentito e risentito. Più che i mitici Joy Division sembrano una versione più oscura degli Editors (gruppo che già di per sè non annovera l’originalità tra i propri pregi). O i nostri Diaframma di Siberia (che, per inciso, meritavano assai di più).
  • CapaRezzaIl sogno eretico. Il Salvemini prosegue la sua carriera lungo un percorso ben definito tra genialità e furbizia commerciale, in fondo come tanti altri artisti nostrani, non privi di talento ma neanche sprovveduti. Questo suo ultimo disco, tra i migliori da lui pubblicati, alterna episodi più e meno riusciti: il “puro stile caparezziano” si ritrova in testi con trovate linguistiche notevoli e brani di denuncia sociale (in particolare Non siete Stato voi), ma anche in qualche banalità di troppo (leggi l’anticlericalismo trito e ritrito che tira in ballo i soliti Galileo e Giordano Bruno) o volgarità gratuita. I fan del rapper pugliese di certo non saranno rimasti delusi.
  • Patrizia Laquidara e Hotel Rif – Il canto dell’anguana. Ad essere pignoli il disco è uscito a fine dicembre 2010 ma chissenefrega. La Laquidara è una cantautrice siciliana ma veneta d’adozione, troppo raffinata e sperimentale per avere successo. Da anni ha scelto i paesi di Luigi Meneghello come sua dimora, e l’amore per questa terra che l’ha accolta è sfociata in questo disco di canti popolari, realizzati in collaborazione con gli Hotel Rif, gruppo folk vicentino. L’artista, grazia al suo particolare timbro di voce e al trasporto nell’interpretazione, è riuscita quasi a “fare suoi” questi brani originali (i testi sono del poeta vicentino Enio Sartori) ma che si inseriscono appieno nella tradizione popolare di casa nostra. Nel suo repertorio ai concerti ci sono anche tante canzoni tradizionali venete che più nessuno ricorda: un patrimonio che sta scomparendo e che andrebbe invece tutelato, perché la cultura veneta passa di qua (e non attraverso altre operazioni discutibili di cui ogni tanto si sente parlare. Chiusa parentesi).

2011 in musica. Terza parte

Terza parte del mio tour de force recensistico-musicale del 2011 (bleah, che inizio di post scadente.)

  • Anna Calvi – Anna Calvi. La Gran Bretagna sforna un’altra grande cantautrice: stavolta trattasi di una ventinovenne dalle chiare origini italiane. Già a fine 2010 era stata segnalata come una delle probabili migliori del novità dell’anno appena trascorso e, per una volta, i media inglesi sempre pronti ad incensare i propri artisti ci hanno azzeccato. La sua seconda opera prima (è stata anche cantante di un gruppo dalla vita breve, i Cheap Hotel) è un piccolo gioiellino oscuro e sensuale, dove la Nostra canta del diavolo e dell’amore ricordando ora Patti Smith, PJ Harvey e Siouxsie, ora Maria Callas e Edith Piaf, imbracciando la sua Telecaster scordata e accompagnata dalla batteria di Daniel Maiden-Wood e soprattutto dall’appariscente polistrumentista Mally Harpaz. Tra cavalcate morriconiane e classicheggianti, turbamenti saffici e discese agli inferi, il disco prosegue per quasi quaranta minuti sempre ad alti livelli, fino alla splendida conclusione di Love Won’t Be Leaving. Buon viaggio, Anna! (P.S.: si può ascoltare il disco intero nel canale YouTube dell’artista).
  • Paolo Benvegnù – Hermann. Ex leader degli Scisma (gruppo del quale mi tocca ammettere la mia ignoranza) al suo terzo disco da “solista”: solista tra virgolette, visto che il diretto interessato e i suoi musicisti preferiscono considerarsi come un gruppo. Un gran disco, sia per quanto riguarda i testi, a riprova dell’eccellente vena da cantautore di questo artista, sia per quanto riguarda la musica, calda e corposa. Perché personaggi così non vengono invitati a Sanremo, al posto delle solite cariatidi (e degli ormai bolliti Marlene Kuntz)?
  • Danger Mouse & Daniele Luppi – Rome. Più che il contenuto in sé, l’interessante è il progetto: Danger Mouse (produttore e fondatore dei Gnarls Barkley, ricordate Crazy?) e Daniele Luppi (musicista romano stabilitosi negli States, l’ennesimo cervello in fuga quindi) hanno avuto la felice intuizione di realizzare una manciata di brani omaggio alle colonne sonore italiane degli anni ’60-’70, suonandoli insieme ad alcuni musicisti di casa nostra che collaborarono con Morricone, e facendoli cantare a Norah Jones e Jack White dei White Stripes. Il risultato è un disco piuttosto breve e godibilissimo, ennesima dimostrazione che la musica italiana, se adeguatamente “cucinata”, può funzionare benissimo anche all’estero.
  • Margherita Pirri – Daydream. Pianista milanese ventiseienne al terzo disco in tre anni, autoprodotto al 100%, dalle basi al libretto della copertina. Cantante lirica mancata con tanto conservatorio alle spalle, se le scrive, se le canta e se le suona in inglese, italiano, francese e tedesco. Questo suo terzo lavoro prosegue il percorso intrapreso nell’album precedente verso sonorità meno “facili” e più personali e mature; certi pezzi suonati al piano creano atmosfere da colonna sonora, mondo quest’ultimo assai apprezzato e studiato dalla nostra; in altri invece riecheggiano la musica celtica e francofona, e il folk americano degli anni ’70. Con un’adeguata produzione, che la aiuti anche ad eliminare un pizzico di monotonia di fondo, potenzialmente può fare grandi cose; ma già ora questa “self made woman” è una bellissima realtà.
  • The StrokesAngles. Uno dei più “fighi” (e sopravvalutati) gruppi newyorchesi del decennio scorso, ha esaurito da tempo la carica innovativa che possedeva un decennio fa. Carino il singolo Machu Picchu, ma dopo la traccia 1 il resto del disco prosegue senza grandi sussulti, come un compitino eseguito senza sforzarsi troppo.
  • Marco Mengoni – Solo 2.0. Mengoni è uno degli artisti più interessanti mai usciti dal nostro X Factor, e per questo viene frettolosamente etichettato come “prodotto di talent”. Nel suo primo vero disco ha indubbiamente il pregio di discostarsi dal solito immaginario pop italiota del sole-cuore-amore, a partire dalla buona title-track che ricorda i Muse di Origin of Symmetry; per il resto, però, c’è ancora da lavorare. Il talento c’è, le canzoni non ancora: rimandato a settembre.
  • The Black Keys – El Camino. I Black Keys sono un duo dalla provincia americana, autoironico e stralunato, che sembra uscito da un film dei fratelli Cohen. C’è poco da fare: il chiacchierato critico musicale Piero Scaruffi quando dice che il rock è americano come l’islam è arabo, ha perfettamente ragione: infatti per trovare un po’ di freschezza in dischi così, ormai bisogna attraversare l’oceano per forza. Come direbbe Mick Jagger, quello dei Black Keys è solo rock’n’roll, ma mi piace: ecco, il fatto che il disco a volte è fin groppo “piacione” è forse più un limite che un pregio.
  • Adele21. Uno dei migliori dischi finiti quest’anno in Italia in cima alla hit parade, dove sta soggiornando da mesi e raggiunto, dopo molte settimane, pure il primo posto. Il secondo disco dell’ancor giovane londinese Adele Adkins è stato uno dei più clamorosi successi mondiali del 2011: quindici milioni di copie vendute, cifre da secolo scorso, roba che neanche Britney Spears (brr). Il suo “soul pop” non presenta alla fine nulla di nuovo, ma siamo di fronte ad un disco che, pur tra qualche banalità e/o furbizia commerciale, presenta qualche piccola gemma che si ricorderà con piacere anche tra molti anni. Pollice su anche al fatto che non siamo di fronte alla solita bellona da copertina. Amara considerazione finale: fosse nata in Italia, oggi Adele (pronunciata con la “e” finale) sarebbe un’impiegata ventitreenne sovrappeso che nel fine settimana arrotonda facendo piano-bar nei localini, ben conscia di non avere alcuna possibilità di sfondare nel mondo della musica.
  • Sigur Rós – Inni. Trasportare in un disco l’atmosfera di un concerto è difficile, specie quando chi suona è un gruppo che per i suoi paesaggi e le sue atmosfere è idolatrato in mezzo mondo. L’operazione è riuscita assai bene, sia per quanto riguarda la scaletta che per quanto riguarda la resa di registrazione. Per la cronaca, a questo album è abbinato anche un film-documentario realizzato dalla band stessa. Disco super consigliato, sia ai fan del gruppo sia come punto di partenza per chi ancora non li conosce.
  • SubsonicaEden. Da quando sono passati alla major, solo una volta (L’eclissi, 2007) hanno pubblicato qualcosa degno di nota. Eden è un concept album piuttosto forzato e pretenzioso che contende a Terrestre (2005) il poco ambito record di disco peggiore della loro carriera. Si salvano, ma solo in parte, i singoli, e poco altro. Purtroppo i Subsonica non sono più quelli di una volta e loro stessi, ben consci di questo, ci scherzano sopra (Benzina Ogoshi), con un po’ di paraculaggine. Quella a loro di certo non manca: di certo, dopo 15 anni di concerti, sanno bene come muoversi sul palco e farsi desiderare. Dal vivo, insomma, spaccano come non mai. Anche con i pezzi nuovi.

2011 in musica. Seconda parte

Seconda parte della mia solita carrellata di opinioni su un po’ di cose che ho ascoltato in quest’anno che ormai volge al disio.

  • Verdena – WOWTitolo azzeccatissimo. Il trio bergamasco è riuscito nell’impresa di migliorarsi rispetto al già notevole Reqiuem. Quanti gruppi al mondo possono vantare una carriera in costante crescita, disco dopo disco? Wow è l’album italiano dell’anno, e chi scrive fino a 5-6 anni fa non poteva certo essere annoverato tra gli estimatori di questo gruppo. Nel loro quinto disco Alberto, Luca e Roberta superano loro stessi, sia in quantità che in qualità, a metà tra sperimentazione e tradizione canora nostrana: un disco insomma pienamente italiano. Le influenze? Grunge, rock psichedelico (Jennifer Gentle, Beatles), new vave, grunge ed elettronica (MGMT), cantautorato italiano (Battisti, Battiato e pure… Mango, per loro stessa ammissione), il tutto senza scimmiottare nessuno ma con uno stile personalissimo e ben collaudato. Pollice su anche per il prezzo: meno di 15 euro per un disco doppio pubblicato da una major, e meno di 20 euro per l’edizione speciale con DVD annesso, non è proprio consueto; una politica del low cost applicata anche ai concerti del gruppo, sempre gratuiti o a prezzo popolare, che a lungo termine ha pagato. Lo dimostrano i tanti concerti concerti sold-out e un secondo posto nella hit parade italiana.
  • RaeinSulla linea d’orizzonte tra questa mia vita e quella di tutti. Album scaricabile gratuitamente nel sito della band. Fatico a giudicare questo album non essendo un conoscitore del genere screamo ma, da neofita, posso affermare che questo disco meriti l’ascolto, sia per per la musica che per i testi (questi ultimi a volte forse un po’ forzatamente “aulici”). Peccato che, a causa della cattiva produzione, risultino spesso di difficile comprensione; azzeccata quindi la scelta del gruppo di inserire le liriche in un file a parte insieme al disco.
  • Tim Hecker – Ravedeath, 1972Hecker è un musicista elettronico canadese di 37 anni e già sei dischi all’attivo. Questa sua ultima opera prende il nome da un’usanza al MIT di lanciare un pianoforte irreparabile dal tetto di un edificio una volta l’anno, d’estate, ed è stato registrato in una chiesa luterana in Islanda. Un gran disco di musica ambient, denso e variegato, anche se di non facile ascolto.
  • The Bastard Sons of DionisoPer non fermarsi mai. Dalla Val Sugana con furore. Trio dalla storia particolare: nato in Trentino, località dove di certo la vita per che fa musica non è facile è ancor più difficile che nel resto d’Italia, è uscito dall’anonimato grazie al secondo posto a X Factor 2009 ma, per lo stesso motivo, è stato ingiustamente etichettato come “prodotto da talent”. Eppure hanno all’attivo pure una sorta di “gemellaggio del nord Est” con Teatro degli Orrori e Tre Allegri Ragazzi Morti, gente non proprio uscita da Amici di Maria De Filippi, insomma. Dopo aver lasciato la gabbia dorata della Sony Music, sono tornati a pieno titolo nel mondo della musica indie pubblicando il miglior disco della loro carriera. Il loro è un rock non banale ma neanche senza tante pretese o troppi fronzoli, suonato e cantato bene: fossero in Inghilterra, sarebbero additati come l’ennesima next big thing. A proposito di oltremanica: la loro cover di Tomorrow Never Knows dei Beatles è (ebbene sì) migliore dell’originale. P.S. Si può ascoltare il disco intero nel canale YouTube del gruppo. Aggiornamento (8 gennaio): i TBSOD hanno linkato questo post nella loro pagina su Facebook, grazie!
  • KasabianVelociraptor! Tra i mille gruppetti indie-ma-non-troppo rock spuntati come funghi oltremanica verso la metà del decennio scorso, i Kasabian sono uno dei più validi. Anche solo per il fatto di essere arrivati dignitosamente al quarto disco. Non sono tanto cambiati rispetto agli esordi del 2004, ma d’altronde il rimanere sempre più o meno uguali (o permanere in un sound ben definito, se preferite) è purtroppo una peculiarità di questo genere di band. Velociraptor! è un disco di buon rock che si ascolta volentieri dall’inizio alla fine, anche oltre quindi ai singoli di rito. Ecco, forse non sono il massimo dell’umiltà ma poco importa.
  • Giorgio Canali e Rossofuoco – RojoUn rock sanguigno e cazzone, che non solo sa tanto di già sentito, ma non ha neanche nulla di particolarmente interessante. Se questo è, come ho letto, il miglior disco della band, siamo presi bene. In certi momenti sembra addirittura di ascoltare Ligabue (Sì, Ligabue); allora, tanto vale ascoltarsi quello originale, che perlomeno si prende meno sul serio (ed è più credibile) dell’ex CCCP-CSI.
  • Bud Spencer Blues Explosion – Fuoco Lento Live Ep al Circolo degli ArtistiEp registrato al Circolo degli Artisti di Roma che, con quattro cover e due pezzi di “produzione propria”, riesce a rendere bene la straordinaria energia che sprigiona questo duo romano, spesso paragonato ai White Stripes ma decisamente più dotato, in quanto a bravura tecnica, dei loro “simili” americani. Nelle cover riescono ad ottenere degli ottimi risultati, sia quando decidono di rispettare gli originali (vedi Voodoo Child di Jimi Hendrix) sia quando invece li stravolgono (Killing in The Name dei Rage Against The Machine o Hommage à Violette Noizieres degli Area).
  • ColdplayMylo XylotoI Coldplay vanno giudicati come un gruppo pop rock e non come un gruppo indie o alternative: non lo sono più da almeno tre dischi (o forse non lo sono mai stati), ed è quindi inutile denigrarli se fanno il loro mestiere (cioè fare pop) o duettare con Rihanna (perché la musica dovrebbe contare di più di chi la canta). Il loro quinto disco non si scosta molto dalle sonorità del precedente Viva la Vida, ma non riesce affatto a ripeterne l’alchimia che ne aveva decretato il successo. I nuovi singoli, insomma, non sono all’altezza di un Lovers in Japan o di un Life in Technicolor, ma quando sarà il momento di cantarli allo stadio funzioneranno benissimo. Il pezzo migliore comunque è Charlie Brown, potenziale singolo del 2012, col suo strano tempo 6/8+8/8+8/8+8/8 (o almeno credo).
  • Various ArtistsDalla parte di Rino: Tributo a Rino Gaetano (a proposito di sei ottavi…). I dischi tributo non mi sono mai piaciuti particolarmente, e questo, uscito nel trentesimo anniversario della prematura morte del cantautore romano, non fa eccezione. Due dischi: il secondo è l’ennesima compilation, e il primo una raccolta di cover di artisti piuttosto eterogenei di cui solo una manciata veramente riuscite. Da dimenticare il singolo, l’ennesima versione di Nuntereggae più aggiornata all’attuale situazione italica, stavolta da Roy Paci: se nell’originale infatti si citavano persone che a distanza di 33 anni sono quasi tutte note al grande pubblico (e qualcuna ancora in circolazione), di una parte dei personaggi infilati a forza nella nuova versione del pezzo non si ricorderà più nessuno molto presto.
  • AucanBlack Rainbow. Il trio bresciano è uno dei gruppi di punta de La Tempesta dischi; questo loro secondo lavoro, da molti sopravvalutato, li ha posti all’attenzione del pubblico underground di casa nostra. Ma il loro dubstep o trip hop o math rock che dir si voglia risulta però troppo spesso macchinoso e freddo per essere veramente valido o interessante. Non si sente un gran miglioramento rispetto al primo disco, datato 2008; col tempo, sei il gruppo riuscirà a raggiungere una certa maturazione artistica, allora sì potremo avere un gruppo di cui vantarci. Anche all’estero.

2011 in musica. Prima parte

Termina l’anno solare e, come al solito, tiro le somme di un anno di ascolti musicali. Quest’anno però le recensioni saranno molte di più, anche se piuttosto brevi, per non tediarvi (e tediarmi..) troppo. Ve le propongo, una decina alla volta in ordine più o meno casuale, in questo e nei prossimi 4-5 post. Buona lettura!

  • R.E.M. – Collapse Into Now. In genere dopo i quarant’anni difficilmente si pubblicano capolavori (salvo poche splendide eccezioni), e Michael Stipe & soci non sfuggono a questa regola. I loro ultimi dischi non erano di certo indimenticabili, ma questo Collapse Into Now come epitaffio non è nulla di nuovo, ma è senz’altro dignitosissimo. Ah, se solo qualche loro coetaneo seguisse il loro esempio e si ritirasse: ci sarebbe più spazio per altre band senz’altro meritevoli di ascolto… Un album che si fa ascoltare con piacere.
  • Lou Reed & Metallica – LuluUna delle uscite più controverse dell’anno, penalizzata di certo anche dai modi e dai tempi della sua promozione. Quando dei “mostri sacri” della musica si mettono assieme per incidere qualcosa, non è affatto detto che i risultati siano all’altezza della reputazione degli stessi. Specie quando i mostri sacri in questione non solo convivono a fatica, ma sono, rispettivamente, un cantautore e un gruppo che ha già sparato da tempo le proprie cartucce migliori. Musicare un’opera teatrale scritta un secolo fa era un’operazione rischiosa, complimenti comunque per il coraggio. Non è una ciofeca come hanno scritto in molti, ma tantomeno un capolavoro: è un disco, un po’ troppo lungo, con un metal già sentito, e “arricchito” da un “canto” e da un recitativo stralunato al limite del goffo.
  • The Beach Boys – The Smile SessionsColui che scrive ritiene i grandi gruppi pop degli anni sessanta decisamente sopravvalutati. Come valutare quindi “il più grande disco mai uscito”, l’album che quarantacinque anni fa avrebbe dovuto rivoluzionare la musica pop? E’ vero, come ha scritto qualcuno, che “il miglior disco del 2011 è stato inciso nel 1966”? Esagerazioni. In fondo parte del materiale che avrebbe dovuto essere inserito in “Smile” venne pubblicato in forma un po’ diversa già poco tempo dopo, a partire dai migliori pezzi del lotto: Heroes and Villians e Good Vibrations, due canzoni leggere che di rivoluzionario avevano al massimo l’uso del sintetizzatore e le tecniche di registrazione. Il secondo disco con i contenuti speciali (registrazioni di prove con spezzoni di brani ripetuti continuamente e versioni alternative) è consigliabile solo ai fan più stretti (leggi: è assolutamente inutile e ripetitivo).
  • The Zen Circus – Nati per subireCon questo disco il trio pisano è entrato perfino nella top 100 italiana (31° posto), giustissima ricompensa per ormai diciassette anni di concerti in Italia e all’estero. Definitivamente abbandonata la lingua inglese per l’italiana, Appino e soci si sono dati quasi al cantautorato, operazione riuscita anche se non del tutto. In quanto a testi si nota un certo miglioramento rispetto al precedente Andate tutti affanculo, ma musicalmente quest’ultimo era di certo più interessante. Undici pezzi che raccontano l’Italia di oggi, con lo stile graffiante e folk tipico di questa bella realtà nostrana.
  • Amy WinehouseLioness: Hidden Treasures. Criticare questi dischi è un po’ come sparare sulla Croce Rossa. Per questo “terzo disco di Amy Winehouse” valgono le stesse considerazioni che si possono fare su altre operazioni commercial-discografiche del passato compiute sull’onda emotiva della scomparsa di un’artista. Contiene senz’altro dei brani validi, ma l’impressione è che siano tenuti insieme a forza. Ci manca l’anima, insomma.
  • Larsen – Cool Cruel MouthGruppo post-rock torinese con una discografia (mi dicono) notevole ma di difficile reperimento. Questo loro ultimo lavoro però è tremendamente noioso: il genere, senz’altro, non aiuta.
  • Dead SkeletonsDead Magick. L’Islanda, per quanto piccola, può vantare una scena musicale di tutto rispetto. Nome della band, titolo e copertina del disco dicono già un po’ da che parte tira il vento: siamo di fronte ad un gruppo ancora giovane e poco conosciuto (nella Wikipedia inglese ancora non ci sono) che propone un interessante collage di shoegaze, rock psichedelico, noise rock, coniugato in ritmi ossessivi, tribali e vagamente esoterici che richiamano alla mente certe sonorità tipiche dell’India. Qua e là fanno un po’ capolino i primi Sigur Ròs (e ti pareva!). Un gruppo da tenere senz’altro a mente per il futuro.
  • Mauro Ermanno Giovanardi – Ho sognato troppo l’altra notte? Dopo una carriera coi LaCrus, duo a metà strada tra i Depeche Mode e la scuola dei cantautori genovesi, il Giovanardi pubblica il primo disco da solista. Tra cover di brani italiani degli anni ’60 ed inediti che non si discostano molto da quelle sonorità spicca Io confesso, forse il pezzo che più meritava la vittoria all’ultimo Festival di Sanremo.
  • Vinicio Capossela – Marinai, Profeti e BaleneCapossela è, forse, la punta di diamante tra i cantautori italiani sotto i cinquant’anni. Questa volta vuole proprio esagerare, come direbbe Vasco, pubblicando una specie di “opera pop” ispirata all’Antico Testamento, al Moby Dick di Herman Melville e alla mitologia classica. Un’operazione monumentale studiata forse più per essere messa in scena in un teatro piuttosto che “rinchiusa” in un supporto come un CD. L’ascolto di questo disco, pur presentando picchi di alta poesia, è ostico e lascia frastornati e un po’ con l’amaro in bocca. Più che buono, ma se ne consiglia l’ascolto dal vivo.
  • JusticeAudio, Video, DiscoQuesto duo di DJ della Parigi-bene sembra proprio aver esaurito quello (evidentemente poco) che aveva da dire. Musica elettronica kitsch e tamarra come non mai (e il video di Civilization ne è degna testimonianza), ma almeno nell’opera prima (Cross, del 2007) ci si divertiva. In questo nuovo lavoro regna invece una certa stanchezza e una sensazione di già sentito il che, visto il genere “danzereccio”, non va affatto bene. Titolo inconsapevolmente(?) fregato al professor Fontecedro (Daniele Luttazzi) di Mai dire Gol. Cosmico!

Schegge sanremesi – Parte IV

Nell’edizione del 1972 a Sanremo partecipano i Delirium, e sul palco sale una camionata di fricchettoni: la scena fa il suo effetto ancor’oggi, a distanza di quasi quarant’anni. Il brano è Jesahel, e il cantante è un giovanissimo Ivano Fossati che, flauto traverso in mano, termina il pezzo giocando a fare lo Ian Anderson dei Jethro Tull. Atmosfera e testi che riportano alla mente un’epoca che sembra lontanissima.

Simile per certi versi è la storia di un altro gruppo noto soprattutto per aver lanciato la carriera solista di un cantautore. Si tratta dei Decibel di Enrico Ruggeri, gruppo che, qualche ingenuità a parte, nel periodo 1978-1980 propose un sound innovativo, fresco e originale. Il massimo della popolarità lo raggiunse portando Contessa al Sanremo del 1980: un pezzo che piacque molto anche, per dire, anche a quel dannato megalomane di Keith Emerson (degli Emerson Lake e Palmer).

E passiamo al Ciofeca Moment. MikiMix a Sanremo 1997, Sezione Giovani, non se lo filò nessuno. Sei anni dopo Caparezza raggiunse la popolarità e si scoprì che Caparezza e Miki Mix erano la stessa persona. Ma come? Il Caparezza contro la musica commerciale, l’alternativo, era stato a Sanremo, e con una canzoncina rap leggera come l’Acqua Panna?! “Mi ci hanno costretto”, rispose lui. Colto con le mani nella marmellata, da allora ci scherza sopra. Sarà: io ci vedo l’indegno inizio della carriera di un musicista che da sempre coniuga talento e calcolo commerciale. Come tanti altri. (Sia ben chiaro, c’è di molto peggio…)

Finiamo in bellezza. Nel 2001 sul palco dell’Ariston salì un gruppo di cui io sento la mancanza: i Bluvertigo. Arrivarono ultimi, posizione che certi artisti ritengono molto ambita, visto che a volte è stata occupata da canzoni che poi hanno avuto grande successo. Morgan, Andy, Sergio e Livio non ricevettero di certo un’accoglienza calorosissima, almeno da parte del pubblico…

…così come accadde per gli Afterhours nel 2009.

Di diverso avviso il presentatore Paolo Bonolis, che volle sottolineare come la loro presenza a quella manifestazione, assai lontana dalle loro frequentazioni, fosse un vero e proprio evento. Come ha giustamente detto Roberto Vecchioni l’altro ieri per commentare, pure con un pizzico di autocritica, la propria partecipazione all’edizione in corso, gli artisti dovrebbero essere più vicini alla gente e meno snob: l’importante è partecipare con una canzone che sia propria, e non con un prodotto confezionato ad hoc. Ed è proprio quello che hanno fatto Manuel Agnelli e soci. E chissà che altri musicisti alternativi abbiano la possibilità di seguire il loro esempio in futuro: ve lo immaginereste, che roba?